Io abitavo all’ultimo piano, in un attico; e dallo sterminato altipiano di terrazze palpitanti di panni stesi, mi divideva il giardino di una chiesetta riparata da platani fronzuti. Proprio di fronte alla mia finestra era il campanile che la chiesa portava ritto sulla facciata come il pennacchio sul berretto del colonnello; lí attorno, al crepuscolo, le rondini volteggiavano dando voce straziante e appassionata alla sera romana. Sicché chiunque uscisse dal mio studio sul balconcino rimaneva stordito dalla vastita dello spazio in cui si trovava sospeso ed esclamava: “Bellissimo!”. Ma viverci era diverso; soprattutto per me che lavoravo fino a notte inoltrata; mi coricavo stanca e, non appena incominciavo a gustare la dolcezza del riposo, il primo tocco della campana mi svegliava di soprassalto. Poco dopo udivo tonfi di portoni che si richiudevano e passi di donnette frettolose risonare nella strada deserta. Ogni mattina speravo che lo zelo di quelle devote appagasse le esigenze del parroco e tornavo a calarmi nel sonno, ghiottamente, quando le campane, esprimendo un’irata protesta contro i pigri e restii, ricominciavano a sbattagliare.
D’estate quei tocchi, entrando prepotentemente dalla finestra aperta, facevano tremare i vetri, la lampada, il mio letto, sembravano addirittura strapparmi di dosso le coperte. Tavolta a causa della mia stanchezza, non riuscivano subito a destarmi, ma mi suggerivano sogni paurosi; mi pareva d’essere su un piroscafo in mezzo all’oceano in burrasca, chiamata dall’allarme alle scialuppe, o imprigionata in un fienile che ardeva senza che alcuno facesse caso alla campana a martello. Da quegli incubi mi destavo col batticuore; udivo, nella camera attigua, mio figlio correre con i piedini scalzi a chiudere la finestra, i vicini sbattere rabbiosamente le persiane. Tutto il casamento era un solo pensiero cattivo, una sola imprecazione che si stampava, nera, sulla bianca tonaca del parroco. Nel tentativo di riaddormentarmi contavo, richiamavo immagini di corsi d’acqua, di cupi velluti, ma inutilmente. Presto tutte le persiane si riaprivano, mio figlio incominciava a far correre il trenino; io mi alzavo e, attirata in cucina da un odore di latte bruciato, trovavo la domestica riappisolata presso il fornello a gas che lingueggiava maligno nella livida luce del mattino, mentre le campane vittoriosamente s’abbandonavano a ogni sorta di giulive follie.
Sopportavo da anni quando, infine, decisi di affrontare il curato. Mio figlio, atterrito dalla mia temerarietà e mosso da un impulso già virile, s’offri d’accompagnarmi. “Andiamo” dissi prendendolo per mano; e quella carne tenera mi parve, più che un appoggio, un argomento.
Così, lui pallido, io rossa in viso, scendemmo rapidi le scale, traversammo la chiesa e irrompemmo nella sagrestia. Un giovane frate, dinanzi a un grande armadio rialzato da una pedana stava ripiegando le cotte di merletto. Si volse, interrogandomi con l’aria spaurita che hanno sempre i religiosi quando le donne non si presentano loro sottomesse, portando addosso la colpa e la vergogna del peccato originale. Spiegò che il parroco era fuori di Roma per qualche giorno ed egli lo sostituiva. Io non potevo rimandare il colloquio, temevo che in me il coraggio si raggelasse. Dissi, perciò, senza preamboli, quel che avevo da dire, affermando che era impossibile sopportare oltre. Egli, sulla pedana, era piu alto di me, ma io lo fissavo con tanta audacia da obbligarlo a chinare lo sguardo mentre reispondeva che le campane suonavano secondo le regole e che del resto, destandomi alle cinque, potevo approfittare per scendere a messa e incominciare la giornata con un atto di pietà.
Fu quella parola a rinfocolare la mia ira. “Pietà?” scattai con violenza. “E voi, per chi lavora di notte, non avete pietà?” Parve stupito giacché per lui la notte era sonno e riposo. “Io scrivo” incominciai, ma subito capii che avevo commesso un errore e che la mia professione lo insospettiva. “Chi deve dar da mangiare ai propri figli” ripresi, agitando la tenera mano stretta nella mia “non può scegliere l’ora in cui deve lavorare”. Sentivo tuttavia di precipitare nel vuoto e d’un tratto, vedendo oltre la finestra aperta, le squallide terrazze, i panni stesi, mi parve di aver trovato un appiglio: “E i tipografi?” ripresi. “E gli agenti di polizia? E le infermiere? I tranvieri dei servizi notturni, i piloti, gli autisti dei tassi, i ferrovieri? E i farmacisti, le levatrici, quelli che assistono i malati, che vegliano i morti, non hanno diritto, in cambio del loro lavoro, alla vostra pietà? Centinaia” incalzavo “migliaia di persone non possono riposare per la vostra mancanza di pietà.”
Era giovane e, di fronte a quella folla che lo accusava rimase disarmato; scese dalla pedana come per cheidere scusa e io, quando lo vidi alla mia altezza, gli domandai: “Ebbene?” Taceva. “Chi vuole andare a messa” ripresi “puo caricare la sveglia, ma chi é obbligato a dormire dove . . . ” e proruppi “guardi dove!”
Dalla finestra della sagrestia, che il verde fogliame dei platani avvolgeva d’ombra refrigerante, gli indicai la mia finestra alta nel sole bianco, con le persiane aperte come braccia disperate. Dappertutto attorno si vedevano innumerevoli altre finestre egualmente indifese. Egli si fece pallido e si volse a guardarmi. Di contro a lui, solo, mio figlio e io eravamo una famiglia, un’entita morale operante, che adempie doveri e reclama diritti. Dietro gli occhiali spessi vidi abbassarsi le sue palpebre grevi e oleose di meridionale. Fece per dire qualcosa, ma le sue parole furono coperte da un improvviso assordante frastuono che crollava dal campanile. Quando le campane tacquero, restò tra noi un silenzio impacciato. “Capisco” egli mormorò infine “ma il parroco é assente e io no posso . . . ” Esitava, implorando comprensione. Io lo guardai ironica e poi dissi, gelidamente congedandomi: “Credevo che non fosse necessario un ordine superiore per compiere un atto di pietà.”
Il mattino seguente fui destata, come al solito, dal primo tocco della campana. Rimasi in attesa e mi pareva che, attraverso le spazio, fossimo ancora l’uno di fronte all’altra, sfidandoci con gli occhi. Aspettavo che le campane invadessero la camera col loro fragore, riaffermando sprezzantemente il loro mandato d’autorità. Ma solo il mite silenzio del mattino circondava la mia finestra. Vi fu ancora un tocco, discreto come un cenno d’intesa. Poi io m’abbandonai fiduciosa a un sonno stupendo e ristoratore.
Furono giorni indimenticabili: gli inquilini, dai volti riposati e sorridenti, s’inchinavano nel vedermi passare, il portiere si toglieva il berretto con deferenza, mio figlio, folgorato dalla rivelazione del mio potere, non osava piú fare un capriccio. Ci svegliavamo rallegrai dal cinguettio deglie uccellini tra i rami dei platani e le domestiche cantavano sbattendo i tappeti. Ma fu un trionfo effimero, una felicità breve: poche mattine dopo, il fioso scatenarsi delle campane annuniciò insieme il ritorno del curato e il suo proposito di punirmi severamente per quando avevo osato. A tutti, dopo la tregua maravigliosa di cui avevamo goduto, piu crudele parve sopportare quella rivincita. Tuttavia nessuno accenó all’accaduto: dopo la mia sconfitta eravamo, ormai, irrimediabilmente condannati. Ma io, verso sera, incapace di lavorare, uscii sul balconcino e spiai ansiosa nel giardino della chiesa. Speravo di scorgere il giovane frate poiché temevo che fosse stato punito o addirittura allontanato. In breve questo timore si fece insostenibile e sentivo che non avrei avuto pace finche non mi fossi accusata, dichiarandomi responsabile du’una constrizione morale. Uscii di casa come se andassi a constituirmi.
In chiesa c’era poca gente. L’altare era ancora adorno di gigli per una cerimonia nuziale che aveva avuto luogo al mattino; e quell’odore zuccherino, celestiale, mi procurava la stessa languidezza di cui pativo da bambina, quando rimanevo a lungo inginocchiata, a digiuno. Fu allora che lo vidi uscire dalla sagrestia con un libretto nero tra le mani, guardando in terra. S’arrestò perche gli sbarravo il passo e nel vedermi spauri. Fece per evitarmi, ma io lo trattenni per un braccio; la lana bianca della tonaca era ruvida, scostante. “Sono venuta perche’ ero in pena” dissi “avevo paura che . . . E soprattutto, volevo dirle grazie.” Non mi rispose, continuó a fissare il pavimento: le sue mani strinsero forte il libretto. Poi rialzó gli occhi, sicuro, e non li abbassò poi finche non ci lasciammo. “Grazie? Per cosa?” Domandó freddo. “Per . . . ” io ripresi incerta “ . . . per il silenzio, per aver fatto tacere le campane.” Ma lui dichairó con fermezza: “Non ho fatto nulla: sono stato assente, indisposto, dal giorno della sua visita fino . . . fino a oggi. Immagino che le campane avranno suonato come al solito. Non potrebbe essere altrimenti. Solo che, a poco a poco, ci si abitua, non si sentono piú, non si sente piú nulla.” Rimasi un attimo in silenzio e poi sorrisi dicendo: “Ecco: deve essere proprio cosí.” Egli tornó ad abbassare gli occhi e si allontanó, dopo un inchino sfuggente, dirigendosi al confessionale dove giá qualche penitente aspettava.
Lo vedevo camminare con le magre spalle curve sotto il peso di quella bugia. Non piú avversario o protettore, ma complice, attraverso il peccato, anche lui accessibile all’umana debolezza, tentato, indifeso: e perció anche lui, come me, bisognoso di pietà. Mi avviai a uscire: vidi, ancora per un attimo, la sua tonaca biancheggiare nel buio del confessionale; poi egli tiró la nera cortina e si cancelló, scomparve.
Fuori, nella strada, la gente passave svelta, impensierita: le lucciole, vagando, mi sfioravano; ed erano a momenti vermi scuri, pelosi, a momenti fulgide gocce di luce. Sopra le case e il campanile aguzzo il cielo era ancora chiaro e, nell’aria, sentivo voci distanti, gioiose, l’odore agro del caprifoglio, tutti i richiami dell’estate. “A poco a poco non si sente piú nulla” pensai rabbrividendo. Pochi giorni dopo abbandonai quella casa.
