Primo Paesaggio

Fabio Pusterla

Illustration by Shuxian Lee

Erano posti in cui si andava come entrando nel nulla, con desolata dolcezza: quasi entrando in uno specchio vuoto. L’ingresso era un piccolo ponte, sotto il quale una chiusa, che per la verità nessuno aveva mai visto modificare il suo assetto ormai definitivamente fissato dalla ruggine, faceva schiumare l’acqua in un modesto singulto. Uno scarico di pietra riversava settimanalmente fiotti torbidi e colorati, talvolta putridi: la fabbrica di dolciumi digeriva i resti di ossa e gelatine, giunti lì su vagoni color mattone dall’aria esausta. Sull’acqua poteva allora levarsi un fumo denso, odoroso. Da dove veniva il torrente? Più in su, oltre la curva dei treni, aveva ancora l’aspetto di un vero corso d’acqua, vere rive frondose, ciuffi e canneti; lambiva prati e boschi, fungeva da confine, abbeverava forse nottetempo animali. Ma all’altezza del ponte acquistava una nuova natura: incanalato fra altissimi muri, costretto a defluire con regolarità nello spazio preordinato fra due bassi marciapiedi di cemento chiaro (sui quali potevamo calarci, frementi d’avventura, attraverso certi larghi condotti laterali, scoli o sbocchi fognari), pareva un rivolo, un filamento d’acqua mesta, e il suo nome che richiamava i bozzoli morti dei bachi da seta splendeva di verità improvvisa. Cos’altro c’era? Frammenti di un quadro travolto o di un progetto abbandonato; un senso di vastità e abbandono, l’assenza di ogni valore misurabile; un’idea di libertà così estrema da far quasi paura. Pozzanghere, ciuffi d’erba, fiori viola, rottami. Piste sconnesse di terra battuta si addentravano nella pianura, tra binari approdati lì non si poteva capire come o perché, cassoni abbandonati, baracche di legno, campi di mais coperti di una strana polvere.

Erano posti in cui si andava senza sapere bene, senza conoscere bene. Con ansia e rassegnazione, nel procedere dei mesi e degli anni, le mani sporche di terra e d’olio. Mai nessun altro paesaggio sarebbe stato più vasto, più sconfinato, più assoluto. Nessun viaggio più disperato e più colmo di speranza. Nelle fanghiglie, che durante i mesi invernali si raggrumavano in gelo, sui prati brinati in novembre o umidi a maggio, sostando presso i mucchi di oggetti scomposti e di ghiaia o correndo sugli argini di qualche torpido canale: decine e decine, centinaia di volti che uscivano dalle pagine e lì si incontravano silenziosi. Campagne di Russia in fiamme, uomini solitari e cupi, ragazze travolte, esploratori; Michele Strogoff camminava lacero con gli occhi bendati, condotto dall’esile Nadia; fuggiaschi si gettavano a terra per non essere scorti dalle pattuglie nere, lo studente Raskolnikov avvolto in una cappa delirava, Cesare Pavese accarezzava con le mani una collina.

Chissà chi fu a decidere che i due ragazzi tedeschi che abitavano nella casa perduta laggiù, in mezzo allo sterrato, fossero due nazisti: uno magro, alto, dall’aria infida; il secondo tarchiato e temibile per la non comune forza fisica, il naso rincagnato e l’occhio piccolo. Strisciammo verso di loro attraverso le stoppie: doveva essere una prima ricognizione, il cui seguito ancora non era stato deciso. Improvvisamente, quando le nostre caute manovre ci avevano portato quasi a metà strada, apparve improvviso, come sorgesse dalle cavità del terreno, il più giovane dei due, basso e rabbioso, con il suo collo largo e le braccia scimmiesche. Ci aspettava, avendo appreso in modi per noi misteriosi della nostra venuta e indovinando forse, con un’intelligenza che a noi parve animalesca e per questo appunto terribile, le nostre vaghe intenzioni. Senza parlare, guardando verso di noi con aria di sfida, stava lì a gambe larghe, piantato al suolo, roteando pazzamente una spranga di ferro attorno alla testa, di cui mi pare ancora di rammentare il sibilo. Fuggimmo, e di quell’episodio inspiegabile e strano non rimase traccia, né rammento alcuna conseguenza. I due si trasferirono forse di lì a poco, e non ci fu più occasione di incontrarli; o, se ci fu, nessuno fece più cenno a quegli avvenimenti; come se ciò che era accaduto nei territori estremi delle nostre avventure fosse rimasto là, in un mondo parallelo, senza corso nella realtà quotidiana, ma proprio per questo ancora più importante, indelebile. I due crebbero: uno divenne forse fiduciario, dell’altro non so nulla da tempo.

Strisciare fra le stoppie: le parole sono giuste, e le stoppie c’erano davvero. Ma non era campagna; non era più campagna, se mai lo era stata, la zona travolta che si percorreva frenetici. Nessuna grande pianura, nessuna reale distesa; il contrario piuttosto, come se ciò che un tempo forse poteva dirsi pianura, distesa, paesaggio, si fosse contratto e prosciugato, e stesse per scomparire definitivamente. Dentro una cornice di strade e binari, tra un bosco scosceso a sud, una circonvallazione a nord, il posto dell’avventura abbandonava il centro abitato, dirigendosi verso ovest, verso le colline che non avrebbe mai raggiunto, chiuso com’era dal vasto semicerchio di un fascio ferroviario. Così quel luogo stentava tra arterie di traffico, stridore di freni, e a poco a poco, impercettibilmente, si colmava dei resti che qui venivano depositati, e che un giorno forse l’avrebbero del tutto ricoperto e fatto scomparire. Potevano essere oggetti di varia natura: ombrelli rotti, valigie smangiate, attrezzi ormai inutili; un reticolato minaccioso (ma, lo si sapeva, aggirabile grazie a varchi d’ogni tipo) segnalava l’area dei rimorchi e delle auto abbandonate, dove con un po’ di fortuna si potevano trovare motori da smontare, carburatori asportabili, bielle. Un po’ più in là, due grandi attrazioni: il misterioso deposito di stracci e balle di carta, dove talvolta, nei giorni di festa, si poteva entrare di soppiatto, restando per ore a saltare da un carico all’altro, arrampicandosi su piramidi effimere sul punto di crollare, e balzando poi verso il basso, su ammassi di tessuti corrosi e macchiati, da cui si alzava la polvere, una polvere densa e antica, che prendeva alla gola. Da un’altra parte, celata in una piega boschiva, dove una valletta scendeva dirupata tra i macchioni, l’afrore proibito di una discarica a cielo aperto, quasi sempre incustodita, invitava all’esplorazione e alla ricerca; poteva capitare, anche se raramente, di trovare pupazzi, piccoli giochi seminuovi, tra i cartocci e i rifiuti odorosi, segreti smessi e appena sciupati. Fummo scacciati una volta sola, da un guardiano solerte che minacciava malattie: il colera, gridava agitando le braccia, non sapete che qui si prende il colera? E gridava ancora mentre già eravano lontani: il colera, il colera!

Le stoppie, allora: erano lì, fra magri campi, costruzioni di legno raffazzonate e cadenti, tracce di un altro mondo quasi scomparso. Parlavano per me la lingua ampia e dura di certi libri americani che stavo leggendo, mescolavano la dolcezza e la violenza di certe pagine di Steinbeck, Caldwell, del misterioso e terribile Faulkner. Eppure dicevano altro, suggerivano già una metamorfosi avvenuta, forse ancora più crudele, certo non più dimenticabile, non più evitabile, non più allontanabile dalla realtà in cui continuavano faticosamente ad esistere. In antiche ere geologiche la breve pianura in cui correvamo, e le colline lì attorno, erano state il fondo di un mare, di cui ancora rimanevano impronte fossili in una cava d’argilla poco distante, ammoniti racchiuse nell’argilla; più recentemente, piccoli stagni e paludi, una vegetazione leggera, frassini e pioppi, canneti. Oggi: pozzanghere, capaci di rimanere lì per mesi, visto il poco sole, per poi raggrumarsi in terra screpolata, giallognola, dura. Dal mare alle pozzanghere: un’asfissia progressiva, dentro la quale anche le erbe e le stoppie giocavano un ruolo, e, soprattutto, dentro la quale non avrebbe davvero avuto senso nessun moto di nostalgia. Nostalgia di che cosa, poi? Il mondo era già questo reticolo di strade e merci, e fra le strade e le merci potevano sussistere come dei piccoli vuoti, delle pozzanghere appunto sui cui bordi sostare per un poco. C’erano le stoppie, i fagiani e i rifiuti, le automobili in corsa e i grandi autotreni, i convogli lunghissimi di cui si potevano contare i vagoni per molti minuti, mentre passavano lenti manovrando verso la loro area di sosta e smistamento, carichi di qualcosa che non si sapeva. E lì in mezzo c’eravamo anche noi, ignari di quasi tutto eppure già perfettamente consci di ogni cosa. Ma poi la strada diritta che al tramonto sembrava infinita, poteva ancora aprire una prospettiva, una vaga ipotesi di vastità; allora poteva mancare il fiato, e ti sentivi strappare dentro. Davanti, se si era sulla sella di una bici o di un motorino, si vedeva qualcosa spalancarsi, il cielo farsi rosso e, quando c’era vento, le ultime nuvole sfilacciarsi e correre via veloci. Dietro le spalle c’era l’incrocio dove un camion aveva schiacciato un ragazzo, trascinandone poi il corpo per metri e metri, la prima percezione di una casualità atroce e non innocente, non assoluta né sovrumana, ma radicata del qui, nella forma dell’oggi e del vivere oggi. E proprio laggiù, nel cuore secco di una complessità appena intuita, accadeva di avvertire un’insopportabile dolcezza, un’insopportabile disperazione, un insopportabile desiderio. Allora ci si fermava per qualche minuto, con un senso di inquietudine e di speranza nel petto che sembrava scoppiare: sul bordo della lunga strada diritta verso il futuro o verso il nulla.



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