Vi chiedo solo di poter finire il mio lavoro

Fabrizio Coscia

Artwork by Lee Wan Xiang

Quando uccisero Pier Paolo Pasolini avevo otto anni. Mi ricordo ancora l’annuncio dato ad apertura del telegiornale, con l’immagine del corpo, nello spiazzo sterrato, coperto da un lenzuolo macchiato di sangue. All’idroscalo di Ostia, nella notte del 2 novembre 1975, lo scrittore e regista era stato massacrato di botte e bastonate, e poi investito con la sua stessa auto. La notizia fu accolta dai miei genitori con un certo imbarazzo, considerate le circostanze della morte. Che cosa faceva Pasolini di notte, in un posto deserto e malfamato, alla periferia di Roma, con un minorenne?

L’unica volta che me ero imbattuto nel suo nome, fino ad allora, era stato poco tempo prima al cinema Posillipo, dove andavo tutti i sabati pomeriggio con mio padre e mia madre. Era una decadente sala liberty che si raggiungeva scendendo una stretta e lunga rampa di scale, con le sedie di legno durissime, le colonne ai lati, e li bianco dello schermo sempre più sporco. La galleria nelle prime due file costringeva a vedere il film con la ringhiera davanti e la platea invece sembrava sprofondata sotto il livello del mare, la cui salsedine lasciava macchie di muffa alle pareti. Quel cinema, durante gli anni Settanta, era frequentato a Napoli solo dai giovani di sinistra o dalle famiglie posillipine meno benestanti, come la mia, che approfittavano del costo economico del biglietto. E fu lì, prima della proiezione di un film di Bud Spencer e Terence Hill, che assistetti alla presentazione di un “prossimamente,” con alcune immagini vagamente oscene e minacciose, sulle quali una voce fuori campo aveva annunciato il nome di Pier Paolo Pasolini. Così, quando in televisione arrivò la notizia della morte dello scrittore e notai il disagio dei miei genitori, subito associai il nome a quelle immagini che non avevo dimenticato.

In effetti, mio padre mi disse che l’uomo ammazzato così barbaramente “faceva film sporchi.” Possibile che fosse bastato questo a farlo uccidere? No, ci doveva essere dell’altro. Difatti a mia zia, il giorno dopo, scappò detto qualcosa: “Era uno che andava coi ragazzini di strada.” Lì per lì non capii che cosa volesse dire, ma dal tono con cui la zia pronunciò quelle parole, intuii che c’era sotto del losco. Soltanto una decina d’anni dopo appresi che Pier Paolo Pasolini era un poeta, uno scrittore, un regista apprezzato a livello internazionale, ma soprattutto scoprii che era uno degli intellettuali più importanti dell’Italia del dopoguerra. Negli anni del liceo comprai tutte le sue opere di poesia e i due romanzi, che lessi da cima a fondo, per poi dedicarmi alle Lettere luterane, agli Scritti corsari e a tutto il teatro, e naturalmente vidi tutti i suoi film in videocassetta. Con un certo spirito di rivalsa, facevo in modo che i miei genitori sapessero della mia venerazione per l’uomo “che andava coi ragazzini di strada,” e se mia madre si convertì quasi subito, lasciandosi contagiare dal mio entusiasmo per l’artista, mio padre restò sempre molto diffidente verso l’uomo. Se ne dicevano troppe su di lui, ripeteva: storie brutte, che dovevano avere per forza un fondo di verità. E poi continuava a considerare I racconti di Canterbury, che aveva visto al cinema, “una porcheria.”

Per molto tempo mi sono interrogato sulla morte violenta di Pasolini, su cui sono rimaste, come si sa, molte ombre, dal momento che le circostanze e le dinamiche del delitto non sono mai state chiarite del tutto. Mi colpì molto, del discorso che tenne Alberto Moravia ai funerali, l’accenno che lo scrittore fece alla bontà d’animo di Pasolini. Pochi uomini erano così buoni come lui, così refrattari alla violenza, disse. Lo stesso concetto espresse Eduardo De Filippo in un’intervista, definendo Pasolini “una creatura angelica.” Non tutti avrebbero sottoscritto queste parole. Molti, non solo mio padre e mia zia, condannavano le sue debolezze private, quel suo doppio ruolo di raffinato intellettuale di sinistra e di spregiudicato corruttore di minori. Ma quando immagino il suo corpo massacrato, l’accanimento feroce con cui fu ammazzato, non posso fare a meno di provare un senso di sgomento. La violenza fisica mi spaventa, non la capisco; e tanto più mi spaventa quando viene perpetrata contro una persona indifesa. Mi domando il perché di tanto odio, se davvero il poeta, come penso, è l’essere più inerme dell’universo. Non ho mai creduto alla retorica della “pericolosità” dell’artista, né credo ai complotti, alle trame segrete. Il male, spesso, è molto più ottuso, più banale di quanto si creda.

 

*

La Huerta di San Vicente, a Granada, era la casa estiva di Federico García Lorca. Qui il poeta scrisse alcune delle sue opere teatrali più importante, come Nozze di sangue e Yerma. Si trova all’interno di un ampio parco, a dieci minuti di cammino dal centro della città, e conserva la sua struttura originaria, con la scrivania, un grammofono, un antico piano a mezza coda, le sedie Thonet, il letto, il divano, uno specchio art déco e molti altri oggetti. Nono tutto è originario del luogo, ma non importa. Quel che conta è lo spazio fisico, l’ambiente, sono le stanze, le scale, il giardino, tutto ciò che García Lorca ha attraversato per dieci anni in questa casa. Quel che conta è la sua presenza ancora viva. O almeno così mi parve, quando andai a visitarla in un’estate caldissima, con la precisa sensazione di recarmi in un luogo sacro. Era l’unica meta del mio viaggio, quella casa bianca circondata da viti, rose e cipressi. Avevo intenzione di lasciarmi possedere dal duende di Federico García Lorca, che ancora abitava quei luoghi. Da quel potere “oscuro e trepidante” che parlava tramite la sua poesia e la sua persona, dalle “più recondite stanze del sangue.” Attraversando il parco, non facevo che ripetermi in mente, come un mantra, l’inizio della sua Romanza sonnambula, e anche io vedevo—e volevo—attorno a me solo quel famoso e misterioso “verde.” Ero così eccitato che l’avrei cantata ad alta voce, se avessi conosciuto la musica. Un’euforia che non mi ha lasciato per tutto il tempo della visita. Lorca era davvero una “creatura angelica,” come Eduardo disse di Pasolini, sempre dalla parte dei diseredati, dei più deboli. Una volta affermò in un’intervista che il fatto di essere di Granada lo spingeva a “comprendere i perseguitati, essere dalla parte del gitano, del nero, dell’ebreo, del moro che tutti ci portiamo dentro.” Aveva un carisma straordinario e un magnetismo che incantava chiunque lo guardasse recitare o lo ascoltasse cantare le sue poesie, accompagnandosi alla chitarra o al piano.

Quando scrisse i suoi Sonetti dell’amore oscuro stava vivendo un’intensa storia d’amore con un “giovane biondo di Albacete,” Juan Ramirez de Lucas, diciannovenne colto e bellissimo che sognava di diventare un attore. Quelle ultime poesie erano dedicate a lui. Si erano conosciuti a Madrid, durante i caotici anni della Repubblica Spagnola. Progettarono di fuggire insieme in Messico e si separarono nel giugno del 1936 per i preparativi: Lorca diretto a Granada per salutare i suoi genitori e Ramirez de Lucas ad Albacete per ottenere il permesso della partenza dal padre, necessario per l’espatrio in quanto ancora minorenne. Come temeva, il giovane amante di Lorca non ottenne l’autorizzazione; anzi, il padre, che aveva per il figlio ben altri progetti che quello di lasciargli tentare la carriera dell’attore in Messico in compagnia di un poeta omosessuale, lo minacciò di denunciarlo alla Guardia Civile se solo si fosse azzardato a lasciare Albecete. Lorca, il 18 luglio, gli scrive, invitandolo a essere forte e a rispettare la decisione del padre: “Puoi contare sempre su di me. Io sono il tuo migliore amico e ti chiedo di essere cauto, e di non lasciarti trasportare dalla corrente. Juan, voglio che torni a ridere.” La carta della lettera era impregnata del profumo di un gelsomino della Huerta, che Lorca aveva lasciato nascosto tra i fogli. Fu l’ultima lettera che Juan Ramirez ricevette dal poeta. Quello stesso giorno, infatti, iniziò l’insurrezione golpista dei nazionalisti guidati dal generale Francisco Franco, che occuparono le principali città dell’Andalusia, tra cui Granada, scatenando la guerra civile. Il 16 agosto venne arrestato e fucilato il sindaco socialista di Granada, cognato di Lorca. Anche il poeta, quel giorno, fu prelevato in casa di un amico, dove si era rifugiato. Furono momenti concitatissimi e confusi, quelli che seguirono l’arresto. Molti si mobilitarono per il rilascio del poeta: ci furono promesse, attese, rassicurazioni. Poi, imprevisto, arrivò un ordine segreto del governatore e la notte del 18 Lorca fu condotto nella vicina Viznar.

“Temo di perdere la meraviglia dei tuoi occhi di statua,” aveva scritto il poeta andaluso in uno dei suoi versi dedicati a Ramirez de Lucas. Per non perdere quella “meraviglia,” aveva esitato troppo tempo per decidersi a partire da solo, a mettersi in salvo in Messico, nonostante gli amici lo invitassero a fuggire, perché la situazione per lui si stava facendo molto rischiosa, dal momento che Lorca si era compromesso con la Repubblica e la repressione diventava sempre più indiscriminata. Esitazione che il poeta pagò con la vita. Dopo quella interminabile notte, infatti, Federico García Lorca fu fucilato, senza processo, alle luci dell’alba, in una strada di campagna sotto un vecchio olivo, e il suo corpo fu gettato in una fossa comune, che non fu mai ritrovata. Aveva trentotto anni, e il suo talento fu spento per sempre dai colpi di un fucile.

“Mi sono successe molte cose spiacevoli”—aveva scritto al suo amico in quell’ultima lettera profumata di gelsomino—“per non dire orribili, ma le ho evitate con grazia.” Le parole precise, in spagnolo, sono: “las he toreado con gracia.” Una frase intraducibile, ma che rende alla perfezione il modo in cui Lorca ha affrontato la vita, lasciandosi con accortezza soltanto sfiorare dal male, danzandovi attorno con la leggerezza e la grazia di un toreador che evita elegantemente i colpi del toro. Ma non quella notte. Come capitò al suo amico torero, Ignacio Sánchez Mejías, a cui Lorca aveva dedicato una delle sue liriche più famose, quella notte il poeta dovette soccombere alla belva infuriata nell’arena e “la morte depose uova nella ferita.”

 

*

Me ne andai dalla Huerta de San Vicente con una sensazione di sconfitta. Non mi sentivo per niente bene: l’euforia era sparita ed era sparita pure quella mia assurda pretesa di lasciarmi possedere, come uno sciamano, dal duende di Lorca. Quella notte a Granada non riuscii a dormire: l’albergo affacciava su un patio interno, dov’erano le cucine, che restarono aperte fino a tardi, con un rumore continuo di stoviglie, e voci sguaiate di uomini e donne che chiacchieravano e ridevano forte incuranti dell’ora. Tutta quella confusione mi appariva insopportabile, come se fosse responsabile di tutte le brutture del mondo. Pensai a Pasolini, al suo corpo massacrato, e pensai ai resti del poeta spagnolo, mai ritrovati. Perché si ammazza un uomo indifeso? Un artista, un poeta? La domanda, ossessiva, tornava a ripresentarsi. Anni dopo, per giustificare il crimine commesso, Ramón Ruiz Alonso, il tipografo fascista e cattolico che aveva arrestato García Lorca, disse che il poeta era “rojo y maricón.” Comunista e frocio. Le stesse parole che, pare, furono gridate a Pasolini, quella notte all’Idroscalo di Ostia. Che cosa videro, i due poeti, negli occhi dei loro assassini? Rabbia, scherno, disprezzo, odio? È possibile riconoscere la propria morte nello sguardo dell’altro?

“Voglio vivere senza vedermi,” scrisse García Lorca in una sua poesia. Chissà se si è visto morire. Se aveva gli occhi bendati o aperti, davanti all’esecuzione. Sempre, quando penso alla sua fucilazione, mi torna in mente un quadro di Francisco Goya: Il 3 maggio 1808. La scena raffigura la fucilazione di massa dei contadini spagnoli che a Madrid si erano ribellati all’occupazione francese.



L’eccidio fu ordinato da Gioacchino Murat e avvenne all’alba del 3 maggio 1808, nella Valle del Manzanares, alle falde della montagna del Principe Pio. Al centro del quadro c’è un uomo con le braccia alzate e il camice bianco, illuminato dalla gigantesca lanterna ai piedi dei soldati che imbracciano i fucili: è a lui che penso, quando immagino Lorca nell’attimo della sua esecuzione. Ha gli occhi spalancati sulla sua morte, ma nonostante sia in ginocchio, appare più alto, più imponente dell’intera fila di soldati che lo sta sparando. Così come nel quadro, dove al primo sguardo sembra che ci sia solo questa figura tra le vittime, e solo un attimo dopo ci accorgiamo di tutte le altre, addossate a lui e ammassate ai suoi piedi, anche nella mia immaginazione i compagni che furono ammazzati con Lorca—i due toreri anarchici e il maestro di scuola repubblicano—spariscono, lasciando il posto solo al poeta.

 

*

La prima persona a parlarmi di Isaak Babel’ fu la mia professoressa di lettere al ginnasio. Mi disse, forse con il proposito di provocare la mia curiosità, che dopo Kafka era il più grande genio della moderna narrativa ebraica. Adoravo la mia insegnante. La professoressa Caputi era una donna di oltre quarant’anni, minuta, un po’ gobba, con i capelli neri a caschetto e un viso dagli enormi occhi vagamente bovini, docili ma allo stesso tempo indagatori, una voce da contralto, che sapeva modulare come un’attrice, e un sorriso ironico sempre atteggiato sulle labbra carnose, come se avesse una predisposizione allo scherno verso il mondo intero e la vita. Era raffinata, coltissima, una fumatrice incallita, al punto da avere l’indice e il medio della mano destra ingialliti dalla nicotina, e aveva vissuto a lungo a Parigi: il suo ex marito era uno storico della Sorbonne, collaboratore della prestigiosa rivista degli “Annales,” amico di Jacques Le Goff e Michel Vovelle, e l’aveva lasciata per una studentessa di vent’anni. Ho avuto impressi il suo volto e la sua voce nella mia mente per molti anni, e anche adesso che non c’è più, ritorno spesso col ricordo a lei e alle sue lezioni di letteratura. In classe ci leggeva Kafka, Proust, Joyce, Dostoevkij, Svevo, come se fossimo degli studenti universitari e non dei brufolosi e confusi quindicenni, salvo poi umiliarci apostrofandoci con un roboante: “Bambini!,” quando doveva richiamarci all’ordine. In realtà la seguivamo in pochissimi fino in fondo per quegli ardui territori, ma a quei pochissimi avrebbe cambiato la vita.

“Dovresti leggerlo—mi disse un giorno, quando a fine lezione mi vide sfogliare incuriosito uno dei suoi libri che ogni giorno gettava lì sulla cattedra apposta, con studiata sbadataggine, per attirare la nostra attenzione—Un ebreo russo ammazzato dalla polizia segreta di Stalin. Perché mica solo Hitler era antisemita, sai?.”

Il libro s’intitolava Racconti di Odessa. Lo chiesi in prestito e lo lessi d’un fiato. Mi lasciò stordito e perplesso: quel mondo di gangster e ladri dalla vitalità traboccante, coi loro improbabili completi arancioni e i panciotti lampone, quell’universo chiassoso, colorato e iperbolico di contrabbandieri, assassini, taglieggiatori del ghetto di Odessa non assomigliava a niente di ciò che avevo letto fino a quel momento. Quando lo riportai indietro, non seppi nemmeno bene cosa dire. Ma la professoressa il giorno dopo mi diede un altro libro dello stesso autore: L’armata a cavallo. Dal titolo avevo immaginato un romanzo di guerra epico, e invece mi ritrovai una raccolta di racconti dove non veniva descritta nemmeno una battaglia, ma in compenso non mancava nulla del repertorio di nefandezze, delitti, scempi, che la guerra di solito consuma dietro le quinte: un orrore quotidiano e senza gloria, raccontato con uno stile eccentrico, spericolato, ricco di contrasti e di una strana bellezza. Ero stupito, soggiogato, ma non riuscivo a capire fino in fondo con chi e che cosa avessi da fare.

Il genio di Babel’ mi si rivelò in tutta la sua chiarezza in modo tardivo, ma folgorante, quando lo rilessi per intero a quarant’anni, subito dopo aver appreso la notizia della morte della mia insegnante, quasi come se volessi renderle omaggio con quel ritorno al passato. Era più di un rimpianto: era il mio modo di ringraziarla per avermi messo tra le mani i libri di quell’ebreo russo, che forse non avrei mai conosciuto se non avessi visto quel giorno la copia dei Racconti di Odessa sulla sua cattedra, con la copertina color giallo senape, e il ritratto di un rabbino dal volto verde.

 

*

All’alba del 15 maggio 1939 Isaak Babel’ venne arrestato nella sua dacia di Peredelkino, un villaggio fuori Mosca abitato da molti scrittori sovietici. Nemmeno di fronte alla gravità della situazione il figlio del bottegaio ebreo di Odessa rinunciò alla sua ironia: “Non vi lasciano dormire tanto,” scherzò, rivolto agli agenti che lo stavano prelevando, riferendosi all’ora dell’arresto. Ma la battuta era solo un modo per nascondere il terrore. Lo scrittore sapeva che cosa lo aspettava. Viveva da anni con l’incubo di quel momento, aveva assistito nel tempo a ondate di arresti e a una situazione politica e sociale sempre più pesante. Nel 1932 era stato a Parigi, dove vivevano la moglie e la figlia, e dove aveva avuto una serie di incontri compromettenti e intrecciato relazioni pericolose con fuoriusciti russi, ma era tornato a Mosca l’anno dopo, probabilmente per non destare il sospetto che intendesse restare all’estero. La sua figura di scrittore in patria era sempre stata guardata con diffidenza: fino a quel momento, infatti, Babel’ era riuscito a mantenersi in un difficile equilibrio tra ortodossia pubblica e dissidenza privata. Aveva conosciuto da vicino il cuore di tenebra del Cremlino, frequentando la casa (e la moglie) di Nikolaj Ežov, capo del NKVD—il Commissariato del Popolo per gli affari interni—uno dei massimi artefici del Grande Terrore del 1937, soprannominato “il nano feroce.”

I Racconti di Odessa e L’armata a cavallo avevano reso famoso lo scrittore ebreo, che era apprezzato e stimato dai grandi letterati del tempo, ma gli avevano attirato anche molte antipatie e critiche ideologiche. Era aspettato al varco, per così dire, anche dal punto di vista artistico, dal momento che i suoi scritti furono accusati di eccessivo “formalismo,” di “simbolismo,” di “oscenità” e scarsa fedeltà ai principi del realismo socialista. Anche per questo Babel’ aveva smesso di pubblicare, salvo pochi e brevi racconti, diventando, come lui stesso si definì ironicamente al I Congresso degli scrittori sovietici, “un grande maestro nel genere letterario del silenzio.” Si costringeva al silenzio per non tradire se stesso e per non esporsi. Ma quando gli uomini della polizia segreta lo andarono ad arrestare, sequestrarono dalla sua casa di Peredelkino e da quella di Mosca 24 raccoglitori di manoscritti inediti. Lo scrittore accusato di scarsa produttività non aveva mai smesso di scrivere, nascondendosi dietro un silenzio che aumentava i sospetti. In realtà, Babel’ si era salvato fino a quel momento grazie soprattutto alla protezione di Maxim Gor’kij, il vecchio scrittore di regime e suo benefattore da sempre. Dopo la sua morte, e dopo la sostituzione di Ežov come commissario del popolo con Lavrentij Berija, “il Macellaio di Stalin,” la situazione per Babel’ era diventava assai critica. Forse proprio la frequentazione dello scrittore con Ežov, caduto in disgrazia agli occhi di Stalin, pesò in maniera decisiva sull’ordine di cattura. Forse alcuni dei suoi vecchi nemici avendo fatto carriera negli anni erano diventati così potenti da determinare in modo negativo il suo destino, come il maresciallo Sëmen Budënnyi, che aveva comandato la cavalleria rossa contra i polacchi e che non aveva mai perdonato allo scrittore di aver ritratto con “una sconcia caricatura” i suoi cosacchi nell’Armata a cavallo. O forse Babel’ fu arrestato senza alcun motivo, solo perché era ebreo, o un intellettuale non abbastanza allineato. Trasferito alla Lubjanka, la sede dei servizi segreti sovietici, lo scrittore fu sottoposto per tre giorni e tre notti a un interrogatorio, a torture fisiche e psicologiche, e fu costretto ad ammettere la sua inesistente colpevolezza. Babel’ fu accusato, senza alcuna prova, di essere un trockista antisovietico e un agente dello spionaggio francese e austriaco.

Nei mesi successivi seguiranno altre torture a altri interrogatori, durante i quali Babel’ si autoaccuserà dell’inverosimile e accuserà come complici chiunque gli venga chiesto di denunciare, per poi ritrattare nei giorni successivi le sue accuse, ammettendo di aver mentito per vigliaccheria. È davvero frustrante scoprire come un uomo dalla personalità così ricca di intelligenza, di umanità e di un profondo senso dell’umorismo possa essere schiacciato e umiliato dalla brutalità del potere. Ci restano un paio di foto segnaletiche nel dossier di Babel’ del KGB, dove si può notare in tutta la sua drammaticità l’effetto devastante di questa umiliazione. In una lo scrittore è ritratto di profilo e nell’altra di fronte. Ha un visibile ematoma che gli circonda l’occhio destro, lo sguardo impietrito dal terrore e non porta gli occhiali.

Babel NKWD.png


Solo chi è molto miope, come lo era Babel’, può capire quale violenza possa contenere il semplice sequestro di un paio di occhiali. È qualcosa che si avvicina molto a un atto di castrazione. Babel’ non era un uomo d’azione: era un intellettuale che guardava il mondo con una “curiosità scatenata,” come scrisse di lui la scrittrice Nadežda Mandel’štam, anche lei ebrea e anche lei vittima delle purghe staliniane. E gli uomini che gli tolsero o gli ruppero gli occhiali, quel giorno, sapevano di dover accecare uno sguardo capace di andare oltre, di scrutare con una “forza propulsiva” irresistibile la vita e le persone.

Picchiato, torturato, minacciato, privato della vista, Babel’ scopre in quei terribili giorni di non essere un eroe, d’esser disposto a denunciare perfino gli amici e le sue ex amanti innocenti pur di salvarsi la pelle o almeno evitare la sofferenza delle torture, salvo poi reagire e tentare di cancellare i suoi momenti di debolezza, stilando un elenco dettagliato di tutti i nomi delle persone che ammette di aver calunniato, e continuando a rilasciare dal carcere ripetute dichiarazioni scritte in cui smentisce le sue confessioni estorte, e ripete che le sue accuse erano dovute solo alla “viltà” del suo comportamento durante l’istruttoria.

Nel processo-farsa che lo condannò a morte, il 26 gennaio 1940, Babel’ proclamò per l’ultima volta la sua innocenza: “Non sono colpevole di nulla—dichiarò—non sono mai stato una spia, non ho commesso alcunché contro l’Unione Sovietica. Nella mia precedente deposizione mi sono auto-calunniato.” E le sue ultime, vane parole, prima di essere fucilato quella notte stessa, furono: “Chiedo solo una cosa: che me venga data la possibilità di finire il mio ultimo lavoro.”

 

*

Rileggendo Babel’, oltre ad ammirare il vigore della sua scrittura, non potevo fare a meno di pensare alla sua fine, alle sue foto segnaletiche (che cosa stavano fissando i suoi occhi miopi privi di occhiali? Stava riconoscendo la propria morte nello sguardo dei suoi assassini? O solo rabbia, scherno, disprezzo, odio?), a quelle sue ultime parole. Di fronte a una condanna a morte quali possono essere le ultime volontà di uno scrittore, se non chiedere di portare a termine quello che sta scrivendo? Per favore, vi chiedo solo di poter finire il mio lavoro. Forse lo stesso pensiero attraversò anche la mente di Pasolini e di García Lorca, prima della loro esecuzione. Se Babel’ stava sistemando il “risultato di otto anni di lavoro,” Pasolini era alle prese con lo scartafaccio di Petrolio, che nelle sue intenzioni doveva essere l’opera della sua vita, mentre Lorca aveva continuato a correggere senza sosta i suoi Sonetti dell’amore oscuro, fino a poche ore prima dell’arresto.

Immaginai, trovandomi in una stessa situazione, in quel preciso momento, di poter desiderare anche io soltanto una cosa. Come si può sopportare di morire senza veder realizzata l’opera più importante della nostra vita? Un libro, un lavoro iniziato, un figlio che sta per nascere. E ho pensato, anche con una certa enfasi, che se qualsiasi omicidio può considerarsi senza dubbio un reato orrendo, quello di un poeta lo è, se possibile, ancora di più, perché oltre a uccidere l’essere umano, si cancellano pure gli infiniti mondi che la sua immaginazione avrebbe potuto ancora creare, e le infinite possibilità di vita che ognuno di essi poteva lascarci intravedere.

Mi sono sorpreso a domandare se Babel’ abbia continuato a pensare, fino alla fine, come ripeteva spesso, che l’uomo è fatto per la felicità. E ho avuto un bisogno impellente di rispondermi di sì, nonostante tutto. In fondo, era una risposta verosimile, perché Babel’ era un uomo che aveva una naturale vocazione alla gioia. Tutt’al contrario, suppongo, dei suoi carnefici. Gli aguzzini che lo interrogarono non avevano la quinta elementare. A uno di loro, finito più tardi a sua volta sotto processo, il giudice chiese se avesse mai letto qualche racconto di Babel’. “A che scopo?,” rispose. Juan Luis Trescastro, l’uomo che si vantava con gli amici in un caffè di Granada di aver sparato “dos tiros en el culo” a García Lorca, era un ubriacone di infima intelligenza. Pino Pelosi, l’assassino di Pasolini, detto Pino la rana per i suoi occhi sporgenti e la bocca larga, aveva frequentato fino alla seconda media, e viveva di espedienti e furti. Nessuno di loro conosceva l’opera degli uomini che hanno ucciso, né potevano avere la minima idea di quali coscienze d’artista stavano spegnando. Ripenso al quadro di Goya e a quella grande lanterna posta a terra, davanti al plotone di esecuzione. Illumina le vittime e oscura i carnefici, che sparano con la testa china, sotto il peso dei loro ridicoli cappelli, senza volto, confusi negli “orribili neri bitume” delle pennellate di Goya—come li definì lo stesso Lorca—ridotti a puri fantocci. Immagino la medesima luce che continua a illuminare i volti di Pasolini, García Lorca e Babel’, l’intelligenza viva dei loro sguardi di poeti, e quella stessa luce che continuerà a oscurare i volti dei loro assassini. Li ho nominati qui solo per dovere di cronaca, ma la Storia non li degnerà nemmeno di uno sbiadito ricordo.


This essay was originally published in Italian in the collection Soli Eravamo (Ad Est dell’Equatore, 2015).