da Museo d’ombre

Gesualdo Bufalino

Illustration by Yeow Su Xian

Mestieri scomparsi

Scrivano, scarparo, cordaro, campanaro, campiero, sediaro, ferraro, perriatore, chiavettiero, spadolatore, pignataro, perciero, saponaro . . .
—Dal Rollo della Milizia Urbana del Comiso, 20 marzo 1799, - professioni degli iscritti

Una civiltà è specialmente la ricchezza dei suoi mestieri. Ognuno dei quali nella propria cellula chiusa s’inventa mimiche, abbigliamenti, linguaggi, contegni, aneddoti di commozione o di scherzo, una pedagogia, una morale. Questo erano le botteghe fino a poco fa: coagula di cultura sufficienti a se stessi, regni dove il re si chiamava “mastro”, e cioè maestro di Martello, d’ascia, di trincetto, di tornio . . . Luoghi storici e santuari di cui nessuna Encyclopédie raccoglierà più ormai né le tecniche in disuso né il nobile odore di falansterio.

Più effimere ancora le attività vagabonde, esercitate all’aria aperta col consesno del sole, della pioggia, del vento: mestieri da picaro; immagini, per un bambino che so, di invidiata felicità.



‘U LAMPIUNARU. Il lampionaio.

Copiava palesamente I gesti di un qualche barbuto Padreterno o stregone ‘u lampiunaru che all’imbrunire, appoggiata la scala a un fanale, si accingeva a sprigionarvi dentro, mediante un semplice zolfanello, I solenni miracoli della luce.

Più misera vista all’alba: quando nelle piccolo pensile case di vetro cominciavano a impallidire le fiamme, e lui sopravenniva di soppiatto e sotto il tocco molle della sua canna spegnimoccoli, come un sicario, ad una ad una le soffocava.



‘U LUPPINARU. Il venditore di lupini.

Quando nelle rigide sere d’inverno la famiglia stave raccolta attorno al braciere, ciascuno con le ginocchia serrate e a stretto contatto col vicino, si sentiva dalla strada giungere mischiato col vento quel grido: “Luppineddi aruci! Tastatili, su’ comu ‘a miennula” (“Lupini dolci! Assaggiateli, sono come le mandorle”). Se il padre si lasciava convincere dalle invocazioni dei figli più piccolo, nel vano della porta appariva ‘u luppinaru, avvolto in un vecchio mantello, con una lantern legata al polso sinistro e un mastello ricolmo nella destra, pronta a versare, in cambio di qualche centesimo, nel bianco piatto proteso una cascata di lupini gialli.



‘U STAGNATARU. Lo stagnino.

Non c’era giorno che questo ambulante non facesse udire sotto I balcony il suo richiamo: “Cu ha’ stagnari pateddi” (“Chi ha padelle da stagnare”).

Le sue armi erano una fucinetta a carbone, un soffietto, un bastoncino di stagno. Scaldato sul fuoco la padella, vi versava dentro un po’ di stagno fuso che spalmava poi accortamente su tutta la superficie. Qualche minuto di lavoro, e la padella tornava a rifulgere in un angolo della cucina, pomposa e giovane come una sposa.



U PARACQUARU CONZAPIATTI. Il racconciatore di ombrelli e piatti.

Se una raffica di tramontana aveva rovesciato la cupola di un ombrello e sconnesso qualche stecca; se un piatto s’era rotto o incrinato, niente paura. Si aspettava di sentire dietro l’uscio la voce di Minicu ’u paracquaru: “Cu ha’ cunzari paracqua e piatti” (“Chi ha ombrelli e piatti da racconciare”); ed ecco che in pochi istanti, dopo un sagace armeggìo con pinza e filo di ferro, i parapioggia tornavano a riparare la pioggia, e le stoviglie a riempirsi di succulente minestre.

Un’occasione di teatro e di festa per la massaia, seduta in circolo con le comari a commentare il progresso del trapano lungo i margini della ferita e a vederla di minuto in minuto rimarginarsi. E magari si fosse potuto racconciare altrettanto la figlia di ’gna Maddalena, scappata l’altra notte di casa, la sciagurata!



’U CIRNITURI. Il vagliatore.

Per molto tempo, a incarnare le sublimità musicali a cui può levarsi il gesto dell’uomo, non vi furono nella mia mente che tre cime: il passo a onde di Donna Carmela Brafa, quando scendeva dopo la messa le scale dell’Annunziata; il braccio levato di Lele Cipolla nel dirigere la quadriglia; le movenze dei cirnituri. Li rivedo riempire di grano i crivelli e agitarli poi con dolci sussulti secondo un arcano inaudibile solfeggio di paradiso. Ne veniva a chi guardava come una sonnolenza, un placido incantesimo del sentire. Mentre lì fuori, dall’aia, giungeva un crepito di zoccoli equini al lavoro, e dagli anelli del soffitto incombevano sulla testa, bianche come statue del Partenone, le grandi forme di caciocavallo.



’U FERRASCECCHI. Il maniscalco.

Alle soglie del paese, sulle rotte obbligate dei carri agricoli, un odore di corno bruciato annunziava da lontano i nibelungici antri che ospitavano i ferrascecchi. Chi passava per la strada li poteva scorgere al lavoro entro una nube di fumo, curvi dietro il deretano dell’animale, ma attenti sempre a balzare da lato, ove uno scarto o altro minimo moto desse avvisaglia di un calcio in arrivo. Del tutto imprevedibili, ahimè, e quindi quasi sempre fatali, le ventosità del paziente che, se investivano l’uomo, gli strappavano memorabili sacramenti e facevano raddoppiare di colpo la richiesta della ricompensa dovuta.



’U CALIARU. Il venditore di ceci e semi.

Ancora oggi, benché più di rado, nei mesi della canicola, il ragazzo che non riesce a prendere sonno e preferisce ammansire camminando le vipere della mente, se càpita sul sagrato, trova il caliaru in atto di stendere ad asciugare sulle pietre chili e chili di semi di zucca, da vendere poi nei giorni di fiera. Come un tempo, quando nelle occasioni di battesimo o di nozze era consuetudine distribuire arachidi, caldarroste, ceci e fave tostate, e lui ne era il dispensiere cerimonioso. Solo che oggi il caliaru arriva in blue-jeans alla guida di un furgoncino pieno di sacchi di plastica e, mentre seduto all’ombra sorveglia il gratuito lavoro del sole, e con una mano munita di pertica sparpaglia i semi qua e là, con l’altra cerca a tentoni sul transistor accanto il più recente ululato di Celentano.



’A FIMMINA RÊ SANGUETTI. La donna delle sanguisughe.

Bestiole vagamente infernali, le sanguisughe erano chiamate in soccorso nelle estremità del male, quando urgeva scaricare di nero sangue il pletorico e quasi aggredire visibilmente la peste nemica chiusa dentro il suo corpo. Una donna si occupava, per mestiere, di applicarle dietro gli orecchi del malato e di svuotarle poi, quando si fossero staccate spontaneamente per sazietà. Pescate nei torrenti dalle parti di Modica, venivano offerte in vendita da un ambulante entro un recipiente di coccio, sigillato da un tappo di sughero. Taluno le teneva in piena luce, sul marmo del canterano, prigioniere di un bicchiere capovolto, simili a un pacifico, orripilante concilio di domestici mostri.



’U PITTURI DECORATURI. Il pittore decoratore.

Con mani odorose di lino e colla di pesce dipingeva tutto il giorno sugli intonaci delle case patrizie feste galanti e tempietti, laghi di naiadi e cirri di nuvole in cielo. Che meraviglia se a notte, stringendosi nel sonno alla moglie (Tresa, Turidda, Milina . . .), avvertisse in confuso al suo fianco, sotto la coltre, un tranquillo respiro di dea?



’A PILUCCHERA. La parrucchiera.

Andava di casa in casa a pettinare capelli, a rifare boccoli e acconciature, ad annodare e a sciogliere tuppi (crocchie, toupets), inestricabili e ferini come criniere. D’estate operava all’aperto, sul marciapiede, davanti all’uscio della cliente. Era allora il momento, per l’adolescente dirimpettaio, di mettersi a spiare dietro l’imposta socchiusa la carezza svelta e sapiente di quelle dita sopra una lunga cara chioma, bionda o corvina.



’U FUMIRARU. Il venditore di letame.

Come accompagna lo sciacallo le carovane e il delfino le navi, ’u fumiraru pedinava i quadrupedi lungo gli itinerari consueti del loro giornaliero cammino, per raccogliere le ciambelle che a intervalli regolari quelli sgravavano sul terreno a guisa di fumanti pietre miliari. Felice chi poteva a sera, rientrando a casa sfibrato dal sole, togliersi di dosso ed esibire agli occhi sgranati della famiglia un cancieddu (corbello) traboccante di superbo raccolto!



L’ACQUALUORU. L’acquaiolo.

Con una sua carrettella, divisa all’interno in cellette come un alveare, e zeppa di bocche capaci, l’acqualuoru vendeva nei rioni più lontani l’acqua della fonte di piazza, sfiancando nell’interminabile giro l’asino, quasi mai recalcitrante. Salvo quando, nei mezzogiorni di maggio, incalorito da una subitanea urgenza d’amore, prendeva la mano al padrone e si scatenava attorno alle bocche d’acqua, dove tra il folto dei concorrenti aveva sentito l’afrore dell’asina amata.

La sarabanda che ne nasceva faceva accorrere ai davanzali mille occhi di avide scandalizzate zitelle e rotolare nella polvere basti, bidoni, e boccali, finché, placata la mischia, scioltosi il viluppo dei carri e dei corpi, s’udiva, a mo’ d’assolo di tromba guerriera, risonare nell’aria un unico lungo raglio felice.



L’AMMOLA FUOFFICI E CUTEDDA. L’arrotino di forbici e coltelli.

Aspettato con impazienza dalla solerte sartina e dal pensoso assassino, l’ammola fuoffici e cutedda appariva nei vicoli, spingendo a mano un suo trabiccolo a ruote, con sopra montata una mola. Agendo su un pedale imprimeva al congegno il moto appropriato, appoggiava con forza alla cote la lama, lavorava assorto e tetro fin quando l’avesse vista brillare acuminata nel sole.

Provava allora su un capello il filo, chiedeva e riceveva la somma del patto, si allontanava adagio, come Giuda, senza voltarsi.



’U MUSICANTI. Il suonatore di serenate.

Sia gloria a Turi Murruzzu, chitarrista di qualità! Lo assumevano per una notte i giovani più focosi e pelosi, ch’erano poi spesso i più timidi, perché li aiutasse a sedurre con la musica le belle testarde dormienti. E quante romanze e stornelli salirono sotto la sua mano magra e veloce dalle corde ruffiane; quante melodie turbarono nell’ombra delle alcove così la vergine come la sposa, così la savia come la folle! Palpiti e veglie e deliri senza numero commentò quella voce tenera e ineducata, e propiziò nozze e ratti e alleanze colpevoli della carne e del cuore. Ché se poi talvolta uno scroscio d’acqua o di peggio su di lui dall’alto villanamente precipitava, più forte e sicura e irridente si sentiva, dopo un minuto, la sua canzone levarsi nella notte, un isolato più in là, a perpetuo vituperio dei mariti troppo vecchi e dei tutori gelosi.



’A TINCITURA. La tintora.

Allora il nero del lutto era legge: nero il cuore, nero il panno. Compresi fazzoletti e camicie. A me dunque a ogni morte di nonno davano da portare i grossi fagotti legati, colore dell’arcobaleno, perché li annerisse d’un subito, appena dietro l’angolo, Donna Stella ’a tincitura. La trovavo in cucina, curva, con le belle braccia nude, su un calderone di aniline, che fumava e pareva vivo. Sapevo di non dovermi affacciare a guardare: un paiuolo di diavoli come quello, dove bollivano e si strizzavano tutte le infamità della terra . . . Ma non mi spaventavano meno, alzando gli occhi, le lingue d’ombra che tremavano lassù, sulla volta; e il borbottìo delle fiamme che voleva persuadermi a tutti i costi una cosa, ma non sapevo che cosa. Strega accigliata e benigna, Donna Stella mi consolava, chiamandomi a mangiare, come una capra, nel suo palmo caldo di Esperide o Eva, i grani scuri di un melograno.



’U PATRIARCA. Il Patriarca.

Con un cappello azzurro da prete in testa, un saio dello stesso colore, lungo fino ai piedi, un bordone fiorito nel pugno, ’u patriarca andava alla questua senza scordarsi una porta. Veniva scelto dal Parroco di San Giuseppe fra i vecchi falegnami,3 e durava in carica fino alla morte. La barba bianca, la misteriosa divisa, il passo tardo e grave, lo apparentavano agli occhi dei fanciulli a una figura di libri: astrologo, re mago, negromante. Taluno d’essi ricorda di avergli toccato l’orlo della veste e baciato la mano solo per assicurarsi che sotto quella variopinta e malinconica maschera non si nascondesse, Dio ce ne liberi, un fantasma.



’U GNURI. Il cocchiere.

Dopo essere stato a stipendio presso i signori, quando possedevano ancora carrozze e servitù, ’u gnuri, con l’andare del tempo, si emancipò dalla dipendenza e per molti anni disprezzò dall’alto della sua cassetta un’orda di pedoni invidiosi, facendo sibilare nell’aria la frusta come un’insegna di re. Protettore di giocatori e di amanti, fu visto più notti vegliare sotto un balcone, aspettando il segnale d’un fischio, d’un lume acceso e poi spento. Sopravvisse per un poco ai tempi cambiati, lasciandosi sorpassare e impolverare senza un lamento dalle nere Balilla, dalle azzurre Isotta Fraschini. Infine una sera d’inverno, alla stazione, dopo il passaggio di un treno vuoto, l’ultimo gnuri si addormentò sotto la pioggia e non si svegliò più.



’U SCUCCIARINU. Lo scorticatore.

Andava in giro per il paese, adocchiando cani senza padrone e rozze invecchiate al basto e alla cavezza. Dal Petraio, dalla Valle di Profino, dopo aver consumato con un coltello i suoi riti sinistri, ritornava portando sulle spalle un sacco pieno di pelli sanguinolente, destinate alla concia.

Alta sulla sua testa, nei mezzogiorni di luglio, aspettava, rotando lenta, una nuvola di corvi.



L’ARGINTIERI. L’argentiere.

“Argentu e oru vecchiu m’accattu” (“Compro argento, oro vecchio”), e una folla di spille, borchie, rosari, anelli, collane, sbucava fuori dagli anfratti della casa, dai fazzoletti annodati, per esser barattata in cambio di qualche onza o tari. Malinconicamente la sposa che vendeva per bisogno vedeva sparire in fondo a una gerla la spadina d’argento che ancora ieri le trafiggeva i capelli.



’U PIRRIATURI. Lo spaccapietre.

Dalle candide cave pedemontane, famose nell’isola, estraeva moli di pietra, servendosi di cunei di legno inzuppati d’acqua, che, dilatandosi, allargavano gli spacchi del piccone e provocavano lo scorrimento delle lastre sui sottostanti strati di argilla.

Solo allora si toglieva dal capo il fazzoletto sudato, legato a cocche, e sedeva a fumare sotto un albero, fra un frinire di cicale. Il suo giorno di gloria fu quando da Palermo ordinarono due blocchi smisurati per scolpirvi i leoni del Teatro Massimo: precedendo un faraonico marchingegno di corde e di rulli, trainato da molti cavalli, egli passò per le vie del paese, fra due ali di popolo, come un santo sulla vara. E dai balconi gli buttarono fiori . . .



’U VASTASI. Il facchino.

Al forzuto, capelluto Ercole di paese qualche soldo bastava per trasportare dalla casa alla stazione le molte e grandi valigie dei signorini che andavano a studiare in città. Li osservava senza invidia, mentre, pallidi, in ghette, solino alto e cappello, sventolavano dal finestrino un fazzoletto di battista, un attimo prima di sparire, inghiottiti a tradimento da un getto di egualitario e democratico fumo.



’U PRUFETA RÔ TIEMPU E MALUTTIEMPU. L’indovino del buono e cattivo tempo.

Non possedeva nemmeno una botte da dormirci dentro, il vecchio barbone Nuofriu, che passava le notti sotto i ponti, con due tappi di carta nelle narici per difendersi dal freddo. Ai mattinieri che lo svegliavano apposta, non rifiutava notizie, per un soldo o due, del suo callo gigante, nostradamo infallibile d’ogni intemperie in arrivo. Poi si levava, prendeva su il fagottello di stracci che gli serviva da cuscino ed era la sua sola ricchezza, e con esso sotto il braccio si avviava verso la vita, tenendo vigili gli occhi per sorprenderne ogni moto e miracolo, e alimentare, durante un giorno ancora, il proprio intatto selvatico stupore d’esistere.



’U CARRITTIERI. Il carrettiere.

Ne conosco uno, l’ultimo o il penultimo, di ottant’anni, piccolo, magro, sbiancato in faccia dai lontani commerci con la luna, senilmente avido di chewing gum e di “Domenica in”.

Gli piace, nei pomeriggi di giugno, starsene seduto al caffè, docile ai curiosi che gli chiedono senza ritegno di scoprire il fianco, dove una lunga cicatrice rossa, lasciata dal coltello di Lici Mammana, ricorda dal ’23 un carico di arance andato a male.

Lusingato, finisce col dare spettacolo: lo ascolto dal mio tavolo intonare rocamente, accompagnandosi a mo’ di frusta con cadenzati schiocchi di lingua, un canto dei suoi, che parlano di solitudine e sonno. I ragazzi gridano ch’è meglio di un blues; uno (dovrà riparare l’italiano a settembre) cita inaspettatamente le nenie che il barone di Meyendorff raccoglieva in bocca ai pastori erranti nell’anno di Nostro Signore 1820.

Cola Ciaceri li lascia dire; se pensa alle diecimila notti d’addiaccio col capo su un sacco, ai padroni iniqui, ai compagni facinorosi, a quel tempo di fatiche inspiegabili ch’è stata la sua vita, non esprime che un solo rammarico : “’A fimmina mi mancava”, mormora senza sorridere. Poi s’abbandona a commemorare con parole di confusa tenerezza i cavalli di nome altero che ha condotto a morire nelle trazzere, uno dopo l’altro, di mosche e di solleone.

Infine scrolla i capelli, le rughe, chiede in regalo una cicca, domanda con serietà dove si può comprare per poco una Honda usata.



’U PITTURI RI CARRETTA. Il pittore di carri.

Reali di Francia, chi vi può scordare? All’aperto, sulle spallette dei carri, Mastro Peppino Samperi governava la vostra sorte, lavorando di spolvero e pennello sotto i nostri occhi abbagliati.

Con due assi messe in croce ci foggiammo una durlindana; in sonno colpimmo al cuore mille orche e mille dragoni, liberammo Angeliche dai lunghi capelli, patimmo la frode di Gano, morimmo circondati a Roncisvalle.

Al risveglio, dietro l’uscio, l’Ippogrifo non c’era più.



’U LIBBRARU AMBULANTI. Il libraio ambulante.

I cataloghi Salani, Bietti, Nerbini, furono per anni i doni dei miei postali re Magi. Via Pasquirolo, 14, fu l’indirizzo del Paradiso.

Ma non per questo attesi con minore impazienza, nei giorni di fiera, l’apparizione di Don Ciaciò Pirrichitto, bancarellaro di libri e di stampe, dove si conta in dieci stazioni la carriera dell’uomo, da neonato a morente. Con gli occhiali verde-oliva sul sottobosco delle sopracciglia ; la gobba recanatese, che gli dava un’aria poeta; il naso sgorbiato (diceva) da una levatrice impaziente, o piuttosto (dicevano) dai pugni d’un marito rincasato prima del tempo, Don Ciaciò anno dopo anno, sotto le logge di Donna Pippa, sciorinò dalla valigia legata con due spaghi in croce tutte le pepite dell’alfabeto. Non bastando le mie due lire festive a comprarne che una soltanto, inghiottivo con gli occhi, senza decidermi, le copertine del Fornaretto, di Guerino il Meschino, della Portatrice di pane. Ma in giustacuore grigioperla di raso, fra due monacelle discinte, fu il cavalier de Seingalt che finalmente mi vinse”.

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