Trotula

Paola Presciuttini

Artwork by Elizabeth Gabrielle Lee

Il Sentimento di una Storia

In primo luogo vi dico che una donna filosofia di nome Trotula, che visse a lungo e che fu assai bella in gioventù
e dalla quale i medici ignoranti traggono grande autorità
e utili insegnamenti,
ci svela una parte della natura delle donne.
Una parte può svelar/a come la provava in sé;
l'altra perché, essendo donna, tutte le donne rivelavano pitì volentieri
a lei che non a un uomo ogni loro segreto pensiero
e le aprivano la loro natura.

C.A. Thomasset, Placide et Tirnéo ou Li secrés as philosophes
(Ginevra 1980),
in Medioevo al femminile, Laterza
(Roma-Bari 1989)

Ho incontrato Trotula De Ruggiero nel Duemilacinque, mentre condu­ cevo alcune ricerche per un romanzo storico che avevo intenzione di scrivere e che forse un giorno porterò a termine. Dovevo documentar­ mi sui possibili studi di un medico del XIV secolo e non potevo far altro che rivolgermi ai testi scritti circa l'attività della Scuola Medica Salernitana. Tra gli altri nomi apparve il suo. Sapevo dell'esistenza delle Mulieres Salernitane, della loro esperienza nell'uso delle erbe ma, nella Storia Documentata, scritta da De Renzi nell'Ottocento, pareva che questa donna spiccasse su tutte le altre per sapienza, valore e rico­ noscimenti. Molte pagine le erano dedicate, si diceva addirittura che qualcuno l'avesse considerata la donna più saggia della Cristianità. In­ tuii di rrovarmi di fronte a una delle tante amnesie che la storia riserva alle grandi figure femminili.

Del resto sentivo in modo totalmente istintivo che quella conoscenza fortuita avrebbe scardinato le fondamenta dei miei pregiudizi. Quesco è ciò che accade quando si incontra un maestro. Molte delle nostre idee pregrcsse vengono spazzate via per essere sostituite.

Qualcosa faceva sì che la sentissi oltremodo vicina. Entrambe viveva­ mo l'inizio di un millennio, entrambe avevamo come motore dell'esi­ stenza una passione tanto forte da oscurare ogni altra, entrambe rischia­ vamo di essere dimenticare dal mondo. Del resta non potevo evitare di considerare le differenze. Lei era un medico, io una scrittrice; lei saler­ nitana, io fiorentina; lei madre di due figli, io figlia di molte madri; lei vissuta nell'anno Mille, io nell'anno Duemila. Ma, come succede per i grandi amori, quella che avrebbe potuto essere percepita come distanza serviva solo a farmela sentire pii:1 attraente, più desiderabile.

Cos'è l'amore se non il viaggio che si compie per conoscere l'altro? Il viaggio per raggiungere Trotula si presentava lungo e pieno di imprevisti. Non sono un medico, anche se conosco personalmente la malattia, che ha complicato la vita di mia madre e adesso anche la mia. Non sono una storica e non sono salernitana. L'unico veicolo con il quale avrei potuto sperare di avvicinarmi a lei era quella scintilla che avevo sentito scoccare davanti al suo nome, leggendo le poche notizie reperibili sulla sua vita. Quella scintilla avrebbe avviato il motore, quel morore mi avrebbe permesso di raggiungerla. Così, con l'incoscienza di un'amante d'altri tempi, ho issaro l'ancora e sono parrita alla volta del suo mondo.

Dopo un anno di studi intensi e appassionati, che mi avevano di­ stratto da ogni altro impegno e progetto letterario precedente, decisi che era tempo di scrivere di lei. Non avevo mai pensato che il mio lavoro potesse condurmi a un romanzo. Come sperare che una figura così immensa si consegnasse totalmente alla mia fantasia? L'unica cosa che mi sentivo in dirino di scrivere era un monologo teatrale. La via dì mezzo del palcoscenico pareva ottima. L'avrei colta in un momento della sua vita, lasciando che la sua voce passasse tra le mie dita per tor­ nare di nuovo sonora nella bocca dell'attrice. Solo le sue parole, senza corpo, senza luogo. Alla prima rappresentazione, quando me la trovai davanti in carne e ossa, capii che non sarebbe finita lì. Troppo aveva ancora da insegnarmi quel personaggio perché io trovassi il coraggio di voltargli le spalle.

Di nuovo mi buttai nei libri e per due anni non toccai la penna. Alla stregua di chi si prepara per un appuntamento, dovevo farmi trovare pronta e al mio meglio il giorno in cui fossi stata nuovamente al suo cospetto.

Più leggevo e più mi stupivo di quanta poca attenzione fosse stata dedicata, fino ad allora, a questa figura fondamentale per la storia delle donne e della medicina. Oltre all'opera del De Renzi c'erano alcune traduzioni dei suoi trattati, alcuni articoli scientifici e poco più.

Non si trattava solo di approfondire la sua storia e il suo lavoro.

Dovevo conoscere quella città che, all'inizio del millennio, splendeva sulle altre come una stella nella notte. Una città dove greci, arabi, ebrei partecipavano alla grande opera della conoscenza del corpo umano. La Hippocratica Civitas di Salerno che stava passando dal dominio longobar­ do a quello normanno, che vedeva crescere e germogliare nell'aria mire del suo golfo il pensiero innovatore di Alfano, Costantino l'Africano, che accoglieva gli ultimi giorni di quel rinnovatore della Chiesa che fu Gregorio VII.

Libro dopo libro, ricerca dopo ricerca, mi trovavo di fronte un Me­dioevo luminoso e sapiente. Una donna che aveva intuito il valore dell'igiene ottocento anni prima che Ignac Semmelweis venisse con­ dannato a finire i suoi anni in manicomio solo perché aveva insinuato il sospetto che molte delle malattie fossero portate ai pazienti dal fatto che i medici non avevano l'abitudine di lavarsi le mani. Avevo sempre pensaro che l'Età di Mezzo fosse un'epoca popolata da uomini sporchi e bigotti, in cui il poco sapere circolante era controllato e cusrodito nei monasteri, e mi si parava di fronte una città dell'XI secolo in cui si traducevano i testi dei filosofi greci con secoli d'anticipo rispetto a quello che sarebbe stato il futuro Umanesimo. La conoscenza era per la maggior parte nelle mani dei laici, e una donna nata nella prima metà di quel secolo consigliava come e quando farsi il bagno, elencava le erbe con le quali lavarsi i denti per rendere l'alito profumato, trascriveva i rimedi escogitati dai saraceni per rendere lucenti i capelli. Una donna che, sopractutco, parlava di altre donne, della loro sessualità, del loro piacere, dei sistemi per rendere meno doloroso il parto, individuando nel corpo femminile quelle peculiarità che il pensiero di genere chiede ancora oggi siano riconosciute dalle accademie.

L'amore rutto personale e privato che mi aveva portato ad avvicinar­ mi a lei cresceva a ogni nuova scoperta. Capivo che in quella sroria c'era molto di quello che io e altre stavamo da tempo cercando. Sapevo per esperienza che una delle più grandi difficoltà che incontrano le donne, nell'avvicinarsi alle professioni cosiddette intellettuali, è quella di non avere modelli. Guardando indietro nella storia ci si para di fronte un esercito di uomini sapienti sul quale ogni nuovo studente maschio sa di poter contare come su un gruppo di appartenenza, una famiglia che lo legittima e lo sostiene. E la famiglia delle donne? Non esiste e, se c'è, viene sotterrata dalla storia. Fino a un secolo fa si credeva che Trotula fosse un uomo.

Come l'archeologo che finalmente trova le tracce della scrittura di un popolo per secoli liquidato dalla storia come analfabeta, ho iniziato a scavare con sempre maggior foga per far emergere dai detriti dei secoli questa nostra antenata tanto illustre e affascinante. E lei usciva dalla nebbia dei secoli posseme e intatta nell'assoluta coerenza del suo destino. La sua vita pareva tutta intrisa dallo spirito della medicina. Quasi che Esculapio in persona l'avesse benedetta col Caduceo. Non solo la esercitava, ma aveva anche sposato un grande medico, Giovanni Plateario, con il quale aveva dato vita a un'intera stirpe di guaritori e studiosi: i suoi due figli Matteo e Giovanni, entrambi autori di trat­ tati importanti, i nipoti, i nipoti dei nipoti. Eppure le poche notizie su di lei non si limitavano a descriverla come madre di, o moglie di: è riuscita a entrare nella storia con il suo nome, con le sue idee, con le opere scritte di suo pugno.

Nel frattempo nel mondo reale, nel mio tempo presente, il dibattito tra la scienza medica e la morale religiosa si andava facendo sempre più aspro. Era passato un millennio ma le cose non sembravano cambiate più di tanto. Trotula era costretta, dal potere ecclesiastico, a studiare gli organi interni sul corpo degli animali, essendo al suo tempo l'autopsia considerata solo una profanazione. Fino al XVII secolo per questa ragio­ ne si moriva di appendicite, non avendo il maiale niente di simile al termine del suo intestino. Ero cerca che il suo sentimento non dovesse essere molto lontano da quello dei nostri medici, cui vengono impedi­ te sperimentazioni che potrebbero salvare molte vite umane. Quindi, alle ragioni di fascinazione personale, alle motivazioni di genere, si aggiungeva il desiderio di immergermi fino a toccare il bandolo di una matassa che ancora si dipana imbrigliando mani e menti.

A questo punto avevo letto decine di libri, passato giorni in biblio­teca, parlato con studiosi e scienziati, chiarito a me stessa le ragioni del mio andare. Era venuto il tempo.

Ho lasciat la mia casa piena di oggetti, di elettronica e di moder­ nità. Non era quello il luogo adatto per Trorula. Ho preso in affitto un vecchio mulino in un bosco lontano da ogni civiltà e mi sono trasferita. Il mulino è grande e antico e parte della sua struttura risale ai primi secoli del millennio scorso. Intorno non si vede traccia umana. Quale luogo migliore per far diventare narrazione tutte quelle nozioni' Girando intorno alla grande struttura di pietra mi sono accorta di un enorme portone chiuso con una barra di ferro.

L'ho aperto e ho capito di essere arrivata. La volta a botte, la luce profonda della finestra a bocca di lupo, il legno di quella porta che sembrava dividere in modo inesorabile il presente dal passato.

Dopo poco è arrivata. Non era la donna sapiente e rivoluzionaria trovata nei libri, ma una bambina seduta in un campo, sotto il sole del Sud. Niente in lei lasciava presagire il suo futuro, ma io sapevo di trovarmi di fronte al mio personaggio finalmente offerto e felice di lasciarmi raccontare la sua scoria.

Capitolo 1 - Del fuoco e del tempo

Trotula trasse i natali verso la prima metà del secolo XI
dalla nobile famiglia salernitana De Ruggiero
di origine longobarda, benemerita perché dette a Salerno
molti uomini insignì.

Regimen Sanitatis, Flos Medìcincte Scholae Salerni
(Salerno, 1941)


C'è un'epoca nella vita di ognuno in cui il tempo scorre senza che si sia capaci di percepirne il movimento. Come accade a un carro o a un cavallo che si affianchi a noi nella corsa.

Se ripenso ai primi anni della mia esistenza rivedo mani bianche pronte ad accogliere i miei primi passi, acqua tiepida e profumata, unghie listate di nero, ginocchia sbucciate, stelle altissime nella not­ te, foglie rugginose, sassi screziati, riflessi nelle pozzanghere. Ogni frammento è limpido e galleggia immobile nella mente, illuminato dai tratti del volto di mia madre, sospeso nel senso di leggerezza di tro­ varmi sollevata sulle braccia di mio padre. Queste immagini però non hanno alcun ordine e non saprei dire se ho scoperto prima la pioggia o il dolore, le lucciole o le lucertole.

Sebbene le cose apprese in quegli anni debbano essere di sicuro mol­ te, non ricordo quando e dove il mondo mi abbia fatto grazia della sua rivelazione. C'è smro di sicuro un tempo in cui non sapevo che diffe­ renza passa era l'estate e l'inverno, tra il maschio e la femmina, tra la guerra e l'amore, tra un cane, un gatto, una mucca, un cavallo. Giorno dopo giorno avrò imparato i nomi, il senso, l'utilizzo, il limite, ma la memoria di quella prima fondamenrale scuola è avvolta in un guscio impossibile da violare.

Poi, d'improvviso, la metamorfosi.

Avevo circa sei anni. Risento ancora sotto la lingua la consistenza ruvida delle gengive rimaste da poco orfane dei denti di latte che, come accade a ogni bambino, dovetti perdere proprio intorno a quell'età. Liberarmi di quei denti, poco resistemi e destinati a venire sostituiti, era il mio cruccio.

Appena ne percepivo uno indebolito, iniziavo a stuzzicarlo cou la lingua fino a quando non rimaneva attaccato alla carne da un unico filamento sanguinolento. Arrivata a quel punto, compivo l'atto di co­ raggio e lo staccavo di netto sputando il sangue provocato dal piccolo trauma.

Come l'acqua di uno stagno che trovi al fine lo sbocco per diventare rorrente, la mia memoria, a partire da quel periodo, inizia a scorrere lineare e limpida, mentre i momenti che precedono quei giorni sono segnati dal marchio della precarietà, proprio come quei denti decidui che un giorno sono spariti dalla mia bocca per lasciare posto a quelli con cui avrei masticato ogni boccone del futuro.

L'importante per me era sfuggire ai meccanismi sempre più inge­gnosi che Iuzzella, la mia rata, metteva in atto, usando fili che par­ tendo dall'interno della mia bocca andavano a legarsi alla sedia che lei strattonava nel tentativo di divellere il dente dal suo alveo. Non che la mia tecnica fosse meno dolorosa, anzi: quel metodo brusco e definitivo risolveva velocemente, e una volta per tutte, il problema, mentre il mio sistema, fatto di tenacia e lavoro continuo, prolungava soltanto il dolo­ re. Era la visione di quel filo, di quella sedia, di quella stanza che tutta intera sembrava legata al mio dente a rendermi terrificante l'esperienza. Mi pareva che il mondo intero fosse sospeso alle mie gengive.

Sapevo che quei denti non sarebbero più tornati, sentivo premere sotto la carne quelli che li avrebbero sostituiti e la mia mente iniziava a produrre i primi rudimentali pensieri, le prime semplici riflessioni sulla capacità del rempo di far sparire le cose conosciute per altre che nemmeno immaginavamo. Da allora iniziai ad accorgermi del passare delle stagioni, del fatto che i fiori diventavano frutti, che i frutti ca­ devano a terra e che la terra se li mangiava facendoli sparire proprio com'erano spariti quei denti dalla mia bocca.

Il tempo aveva il potere di ingiallire le foglie, di far crescere i ca­ pelli, di ammaccare il cuore. Quando Iuzzella si allontanava per un incero giorno, mi accorgevo che al mattino rimanevo serena, poi, col passare della giornata, la mancanza si faceva più acuta, come accade con la sete o con la fame che aumentano via via che si allontana l'ora dell'ultimo desinare. luzzella era la figlia minore della mia balia. Sua madre mi aveva allattato fino all'età di un anno e lei non si scordava mai di ripetermi che, per quanti bambini avesse visto attaccarsi a quel seno, mai nessuno ne aveva estratto tanto liquido prezioso e per così lungo tempo. Di solito lo svezzamento delle femmine avviene in modo precoce rispetto a quello dei maschi, eppure con me dovettero fare un'eccezione.

«Ve site vevuta chistu munno e chill'ato» diceva Iuzzella prendendomi la guancia tra due dita ruvide e callose. Non rammento il nome della donna che fu così generosa di sé nei miei confronti, morì quando ero ancora troppo piccola per conservarne la memoria. Iuzzella fu presa a servizio dalla m1a famiglia e adibita alla mia cura personale. Era lei a vestirmi al risveglio, lei mi spogliava la sera prima di andare a coricarmi, lei tentava di intrecciarmi i capelli mentre scappavo da una stanza all'altra, lei preparava le foglie di menta che ogni mattina masticavo per rendere l'alito profumato e sempre lei organizzava quelle macchine da guerra per strapparmi i denti di bocca. Aveva pochi anni più di me e credo che in vita sua non avesse mai posseduto una pupazza, né di legno, né di pezza. La sua pupazza ero io. Una pupazza che non stava mai ferma e la costringeva a correre dalla mattina alla sera. E aveva corso, giocato e anche lottato con me, fino a quando il cielo glielo aveva permesso. Fino a quando era venuto il tempo per lei di conoscere la forza del dolore e per me il potere famelico del fuoco. Più avanti con l'età, ne avrei apprezzate le proprietà benefiche, quella prima volta mi trov ai a incomrarlo in tutta la sua potenza devastatrice.

L'evento che ramo dovette sconvolgere la vita della mia rara e di tutta la mia famiglia coincide con il periodo in cui andavo perdendo i denti di latte e mi sono chiesta spesso se il mutamento nella mia percezione dello scorrere del tempo sia dipeso da quella trasformazione del mio corpo, oppure dalla memoria di quella scena apocalittica.

Cerro è che il fuoco e il tempo  avevano in comune la capacità di distruggere, di sgretolare, di rendere polvere alla polvere.

In ogni stanza del palazzo di Saleruo, in inverno, ardeva un focolare ben protetto dagli alan di pietra e controllatO dalla servitù. Per quanto remassi di svegliarmi presto non mi era mai accaduto di vedere spento uno di quei camini. Qualcuno si alzava prima dell'alba per ravvivare le braci e qualcuno si ritirava dopo il calar della luna per coprirle.

Ero affascinata dalle fiamme e mi divertivo a veder sparire tra le lin­

gue aranciate ogni tipo di materia mi capirasse sotto mano: animaletti, pezzi di pane secco, bucce di mele, ossa di pollo, grasselli di carne, straccetti di lana, perfino le punte mangiucchiare delle mie unghie e minuscole ciocche di capelli che segavo con il coltello quando ero certa di non essere osservata. Ne calcolavo il tempo di combustione, l'aspetto riportato dopo l'incontro distruttore del calore e soprattutto la trasformazione dell'odore. Preferivo quello dei capelli e delle unghie, che avevo scoperto essere simile. La somiglianza m'incuriosiva tanto che, se una delle domestiche non m'avesse scoperto in tempo, mi sarei trovata pelata a forza di ciocchette tagliate per saziare la curiosità.

Turri i bambini, in guanto nuovi alla vita, tendono a essere piuttosto curiosi. Fanno domande, scavano buche nella terra, strappano i fiori per smontarne la corolla, torturano gli insetti per vedere dove stia il limite tra il loro agitarsi convulso e l'immobilità della morte. La mia curiosità era metodica e quasi rituale. C'era in me una sorta di atteg­ gramento sacrale per il mondo che mi capitava di incontrare. Così la prima volta che vidi un fulmine rimasi ferma a fissare l'aria nella quale si era compiuto quel prodigio. Di solito, per ciò che potevo toccare, mi procuravo di analizzare da sola i come e i perché degli eventi. Quella volta però dovetti ricorrere a mio padre. 

—Perché il cielo si è spaccato, padre mioì

Stava mangiando una zuppa di lenticchie, da solo, seduto al grande tavolo che di solito ospitava i nostri pasti. Il tempo volgeva in tempesta e lui era tornato in anticipo dalla sua battuta di caccia mattutina.

- F: opera di Dio!

Ogni cosa che non riusciva a capire, doveva necessariamente essere opera di Dio, specialmente quelle che succedevano nell'alto del cielo. Chinai il capo in segno di ringraziamento per quell'informazione, che in realtà mi lasciava il dubbio intatto, e mi concentrai di nuovo sul cielo. Grosse nubi si muovevano spinte da una forza invisibile. Imma­ ginai Dio in persona intento a soffiare come un bambino che tenta di tenere sospesa nell'aria una foglia.

Quel giorno scoprii di preferire le risposte di mia madre. Lei, alme­ no, si lanciava in grandi voli di fa ntasia, dove non c'era mai un Dio solo, ma tanti Dei quante sono le forme sulla terra. Così la notte, prima di dormire, mi parlava della Dea della Luna e di giorno di quella della Terra, poi c'erano il Dio del Mare e quello del Sonno. Per quanto avessi Iuzzella sempre pronta a prendersi cura di me, mia madre non disde­ gnava di dedicarmi parte del suo tempo, specialmente d'estate, quando la vita ritirata che conducevamo nel castello rendeva i giorni lenti e vuoti, privi degli impegni mondani che la tenevano occupata nella villa di Salerno. Mio padre era spesso fuori: la caccia, la pesca, l'arrivo d'importanti notabili da incontrare, le tenute più lontane da andare a controllare. Io, mia madre, Iuzzella, la servitù e i soldati restavamo per quattro mesi lontani dalla città, nel castello circondato dai frutteti a ingozzarci di frutti di mare, di cozze e gamberi luccicanti. Correvo nei campi con Iuzzella giocando alla pecora e al lupo. Ci divertivamo a far salrare sassi sull'acqua dello stagno. Iuzzella mi caricava sulle spalle, io cingevo la sua vita con le gambe sentendomi il più coraggioso dei cavalieri.

Poi venne il fuoco e niente fu come prima. Eravamo a Salerno quel giomo. Quando il fuoco si scagliò su di noi, tmta la famiglia si trovò a vivere un evento che per sempre ci avrebbe uniti nel ricordo. Il fulmine entrò dalla porta aperta come un ospite affrettato e uscì dalla finestra sul lato opposto trascinando la sua coda di fuoco. Il rumore assordante che lo accompagnò non aveva niente di umanamente comprensibile; la hamma che si sprigionò al suo passaggio distrusse in poco tempo gran parte dell'edificio. Morirono due soldati, mio padre riportò una ferita alla resra, Iuzzella uscì correndo con una gamba incendiata. Gli scallieri udirono solo il fragoroso rumore e quando balzarono fuori trovarono, al posto del palazzo, una torre avvolta dal rogo. I cavalli nitrivano e scalciavano, le galline starnazzavano nei pollai, la mucca morì bruciata nella stalla.

Né uscii affumicata e incolume, vidi Iuzzella rotolarsi per terra in preda al terrore, con la gamba incendiata; mi precipitai su dì lei cer­ cando di spegnere a mani nude il fuoco che divampava dalla carne con un odore acre, simile a quello che emanavano i miei capelli quando li gettavo per gioco nel focolare. Qualcuno buttò addosso a Iuzzella una coperta bagnata e la smorfia di dolore sul suo viso si sciolse in lacrime. La mia tata chiuse gli occhi come se fosse pronta a cedere alla morte ristoratrice.

Nei giorni successivi, fummo costretti a vivere in una clelle cantine dd palazzo in attesa di partire per il castello.

Furono giorni strani, in cui dormimmo tutti nello stesso letto come succedeva alle famiglie dei poveri.

Conobbi un disagio che non avrei più scordato. Fino ad allora non avevo mai pensaro che la luce potesse avere così grande importanza. Il palazzo di Salerno e il castello delle mie estati erano sempre lumino­ si. Nei giorni che passammo nella cantina, intuii che la tristezza e il buio vanno di pari passo, che il chiarore del sole è di origine divina e porta salute agli uomini sulla terra. Oltre alla scornodità di vivere in quelle condizioni, dovevamo anche fare i conti con il fatto che tutta la famiglia, chi più chi meno, era stata toccata dal fuoco e ne pativa le conseguenze. La più segnata era Iuzzeila che, da quel momento, dovette trascinarsi dietro la gamba offesa per tutta la vita. Mia madre non aveva subìto traumi fisici ma, da allora, il suo sonno fu sempre funestato da immagini d'incendi che la svegliavano nel cuore della notte. Mio padre andò a farsi curare la ferita direttamente da uno dei migliori medici della città e tornò con un turbante bianco in tesm che lo faceva sem­ brare un saggio venuto dalle terre d'Africa. Per Iuzzella, però, nessuno pensò di disturbare un medico vero e proprio e lei si curò con i rimedi che conosceva e, già che c'era, si preoccupò anche di lenire le piccole ustioni che io stessa mi ero prodotta cercando di spegnere la sua gamba. Vidi la mia arnica di giochi preparare con cura impiastri e unguenti quasi non avesse fatto altro per tutta la vita. Rimanevo stupita dalla sapienza che metteva nel dosare e scegliere le materie che l'avrebbero salvata dalla cancrena. Credevo che il sapere fosse prerogativa dei reli­ giosi o comunque dei ricchi.

La vedevo uscire dalla cantina, saltando su una gamba sola come uno strano uccello. Diverse ore dopo tornava, in mano un mazzo di gigli freschi e cestini pieni di piccoli pacchetti confezionati con foglie di fico. Lavava i gigli e li cuoceva nell'acqua con tutta la radice, poi li pestava con forza. Univa a quell'acqua varie polverine che estraeva dai suoi fagotti. «Chist'è o mastice, ca sta l'incenzo, doie scrupol'è canfora e nu poco 'è biacca 'e chiurnrno».
Apriva un altro pacchetto e ne estraeva il grasso di maiale. Prendeva dalla sacca che teneva sul pagliericcio una boccetta di terracotta in cui sapevo conservava l'acqua di rose con la quale al mattino mi lavava il viso.

«Cull'acqua delli rose 'e femrnene addiventano spose!». Versava sui gigli pestati il grasso di maiale sciolto alla fiamma, quindi metteva tutto nell'acqua di rose. S'infilava in bocca molte foglie di menta e le masticava a lungo, poi le mischiava con il resto del preparato. Lasciava freddare il tutto e lo spalmava sul polpaccio reso violaceo dall'ustione, poi mi chiamava a sé e faceva lo stesso con le mie mani. Purtroppo, in quella fuga dal fuoco, la sua gamba si era anche rotta e per quanto l'avesse steccata il piede rimase storto per il resto dei suoi giorni.

Povera Iuzzella, non avrebbe mai trovato marito, né tanto meno un'altra famiglia disposta a mettersela in casa, storpia com'era. Se aves­ se perso la benevolenza dei miei genitori, il suo destino sarebbe stato quello di finire a mendicare da un convento all'altro, sperando nella magnanimità dei frati. E forse una notte d'inverno, una di quelle notti in cui le foresterie dei monasteri sono zeppe di gente che cerca riparo dal gelo, l'avrebbero trovata accucciata io un angolo ammazzata dal freddo. Il mondo non avrebbe mai conosciuto uno degli esseri più miti e mansueti che nostro Signore abbia mandato sulla terra.

Iuzzella non si lamentava mai, non piangeva, uon era capace di irri­ tarsi. Era gioviale e allegra. Gli occhi di uno strano colore tra il verde e l'azzurro erano sempre iocrespati in un sorriso che  spesso s'irradiava anche alle labbra, trasformando tutta la sua faccia rotonda in una luna quando è piena. Le mani quadrate dalle dita carnose come quelle di una bambina, il collo corto, le braccia e le gambe tozze, tutto in lei era rotondo e solido. Benché il piede destro fosse girato completamente verso l'interno, tanto da risultare perpendicolare alla linea del pol­ paccw, nusova a camminare spedita. Quando affrettava il passo per msegmre me, che facevo dello scappare dalla sua sorveglianza bonaria lo scopo delle mie giornate, il suo incedere somigliava a quello di una gallinella che si trovi costretta a correre sulle zampette unghiate. Bar­ collava tenendo la testa dritta e lo sguardo attento a ogni mia svolta. Le scorribande di solito si concludevano sulla soglia che separava le nostre stanze da quelle della servitù. Quello era il limite ultimo della mia indipendenzia, varcarlo senza l'autorizzazione di un adulto mi toglieva dalla giurisdizioneIuzzella per precipitarmi direttamente in quella del mio buon padre che si trovava cosrretto a riprendermi con lunghi discorsi sulla disciplina e sul decoro.

Il portone rappresentava il fossato che divideva la mia vita di bam­ bina da quella della città, quando stavamo in città. Quando invece lasoavamo Salerno per passere l'estate nel castello, avevo il permesso di spingermi nel grande giardino, protetto da alte mura, per andare a correre tra gli alberi di frutta. Potevo camminare e fare capriole nei campi a mio piacimento, essendo la tenuta presidiata giorno e notte da un corpo di guardie, armate di mazze di ferro e spade affilate, messe lì da mio padre proprio per tenere lontani i ladri, i saraceni, i lupi e ogni specie di animale selvatico. Quegli sgherri m'incutevano un sacro terrore con le loro facce mal rasate e tutto quel ferro rugginoso addosso. La loro presenza, insieme all'invalicabile soglia della casa di città, mi lasciava intuire che al limite del mio mondo fatto di giochi e scherzi ce ne fosse un altro pericolosissimo. Un mondo nel quale era bene entrare bardati e armati, oppure vestiti di rutto punto.

Fu proprio intorno ai sette anni che fui cacciata dal mio Eden per essere portata in quella terra di punizione dove nessuno rideva, dove era raro vedere qualcuno correre e dove, ai lati delle strade, s'ìncolltravano mendicanti dalle braccia e dalle gambe storte come i rami dell'ulivo. Prima di spingere il mio racconto fuori dal giardino deli'infanzia, però, vorrei parlare dell'ultimo frutto che vi ho colto.


Italian text © 2013 Meridiano Zero di Odoya srl. All rights reserved. Translation and film rights through Nabu International Literary & Film Rights.