dall’italiano Il mondo salvato dai ragazzini

Elsa Morante

dall’italiano ‘La commedia chimica’

I

La mia bella cartolina dal paradiso

Avevo il passaporto, col visto ufficiale dell’Accademia mondiale di Chimica
                    Superiore
firmato da Dottori e Sciamani laureati.
Ma il primo guardiano armato che ho trovato davanti alla foce sbarrata del
                    Bardo
è stato un re azteco morto assassinato
il quale mi ha gridato così:
‘Qua non si ammettono passeggeri, se non clandestini o espatriati illegali.
                    Indietro!’
Per cui non ho oltrepassato i margini della terra di nessuno. Dell’al di là
non ho potuto che intravedere a malapena in lontananza
una cupola trasparente, sospesa in un quieto crepuscolo amniotico, e adorna
di allegri fumetti, pareva, di un autore infante.
Mentre al di sotto di me, nel basso fondo, scorgevo ancora il corpo che avevo
                    appena lasciato
e già si faceva polvere, con lo scheletro ridotto al semplice sterno
emanante un fioco splendore, come una cinturina d’oro . . .
La novità dell’assenza di peso mi ubriacava come la prima bevuta dei quindici
                    anni
quando gli organi i tessuti le vene tutti i passaggi e i canali della circolazione
sono intatti e puliti nella loro fresca salute
così che l’alcool benedetto come polline equinoziale piove pronto nel centro del
                    fiore.
Paradisi! paradisi! Ma tuttavia, continuo nell’interno di me
sul punto dell’innervo solare, perdurava con le sue fitte come un ascesso la
                    notizia sicura
che questa Assunzione era un surrogato onirico provvisorio, come una
                    marchetta rimediata a buon mercato
e che dabbasso nella stazione terrestre il mio prossimo rimpatrio già era
                    previsto ufficialmente.


II

La sera domenicale

          Per il dolore delle corsie malate
e di tutte le mura carcerarie
e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani,
e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi
e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi
e i sussulti della concezione
e il sapore dolciastro del seme e delle morti,
per il corpo innumerevole del dolore
loro e mio,
oggi io ributto la ragione, maestà
che nega l’ultima grazia,
e passo la mia domenica con la demenza.
O preghiera trafitta dell’elevazione,
io rivendico per me la colpa dell’offesa
nel corpo vile.
Stàmpami nella mente malcresciuta
la tua grazia. Io ti ricevo.

          E ricomincia la piccola strage.
Il sudore la nausea il freddo dei polpastrelli l’agonia delle ossa
e la ridda delle astrazioni meravigliose
nell’orrore della scarnificazione.
La solita pavonessa funesta detta Sheerazade
spiega la sua ruota di trafitture,
piume e flore subito pietrificate
nella vertigine dei colori contro natura, linciaggio lacerante
di sassi puntuti. Nessuna via di fuga.
La gamma dell’illimitato è un’altra legge carceraria
più perversa di ogni limite. Ma ancora
di là da un’era glaciale la norma quotidiana
si riaffaccia a intervalli col suo povero viso domestico
mentre la mescolanza dei regni della natura
scioglie le vene a ondate come il primo mestruo infantile
finché la linfa è bruciata. La febbre carnale è consumata.
La coscienza è ormai solo una tignola che batte nel buio micidiale
in cerca di un filo di sostanza. L’estate è morta.
Addio addio recapiti e indirizzi papi bestiari e numerazioni,
Via della Scimmia, la Navona, Avenue Americas.
Addio misure, direzioni, cinque sensi. Addio doveri servi e diritti servi e giudizi
                    servi.
Rifúgiati alla cieca dall’altra parte, inferi o limbi non importa,
piuttosto che ritrovarti nel tuo domicilio laido
dove ti schiacci fra le pareti bruttate dalle tele dipinte
che si riconoscono stracci e polveri di Sindoni degradate.
Il pavimento è un fango sanguinoso che ribolle
alle stanze, ossari che si sfanno, nell’ultimo baleno
di un piatto d’ottone deformato, dove i limoni
si gonfiano a bolle di plastica. E dallo specchio
ti fissa con le occhiaie polverose qualcosa di estraneo ma pure
prossimo intimo, squama oscura di qua da ogni incarnazione,
che nega anche lo scheletro e tutta la vicenda
delle genesi e delle epifanie
e dei sepolcri e delle pasque. Non tentare l’itinerario
storpio e rovinoso della scala, che per te è un’ascensione di secoli,
e di sopra e di sotto c’è sempre l’inferno.
Il cielo decaduto è la bassa tenda cenciosa
del lazzaretto terrestre. E il flauto mozartiano
è un saltarello maligno, che ti ribatte
fin dentro il bulbo dell’occhio la sua triviale mimica
di un’aritmetica ossessiva che non significa altro . . .
Nessun cielo ulterore si scopre. Non s’apre il loto dei mille petali.
Tu sei tutta qui. E non c’è altro.
Assisti a questo. E cessa di chiamare
amanti morti, madri morte.
Denudàti, più poveri ancora di te, loro non frequentano questa
né altre dimensioni. Ultima loro dimora
resta soltanto la tua memoria.

          Memoria memoria, casa di pena
dove per cameroni e ballatoi deserti
un fragore di altoparlanti non cessa di ripetere
(il meccanismo s’è incantato) sempre il punto amaro
degli Elì Elì senza risposta. L’urlo del ragazzo
che precipita accecato dal male sacro.
Il giovane assassino che smania nel folle dormitorio.
La mozza litania cristiana nel deposito
dell’ospedale, intorno alla vecchia ebrea morta
che scostò la croce con le sue manine deliranti.
SENZA I CONFORTI DELLA RELIGIONE. Questa casa è piena di sangue
ma il sangue stesso, tutti i sangui, non sono che vapori larvali
conformi alla mente che li testimonia.
E quando per te venga l’ora del requiem, così sarà per quelle grida.
La domenica sconsacrata ormai declina
le lune della peste sono già calanti
la siepe spinata rigermoglia, i tuoi sensi scampanano a cinque voci.
Riaffréttati, riaffréttati all’incontro dei tuoi poveri domani consueti
e del tuo solito corpo morituro.
È l’ora di cena. O fame di vita, nútriti
ancora alla sostanza quotidiana delle stragi.
Rinasci alle forme e confidenze e cori arbitrari
alla coscienza
alla salute
all’ordine delle date
al tuo posto.

Nessuna Rivelazione (Lo spettacolo, anche illegale,
dipende sempre dalla fabbrica collettiva degli arbitrii).
Nessun peccato (La macchina architettata per il supplizio
non ha colpa dei supplizi, o poveri peccatori).
E nessuna grazia speciale.
(Unica grazia comune è la pazienza
fino all’amen della consumazione).
Vàttene contenta. Assolta, assolta, benché recidiva.
Buona sera, buona sera.
Anche questa domenica è passata.