La madre di Eva

Silvia Ferreri

Artwork by Olaya Barr

«La mastectomia produrrà molto sangue» aveva detto Radovic durante uno dei nostri incontri, «ma non c’è da spaventarsi, è normale».

È normale chiedere di farsi espiantare gli organi a diciotto anni. Io ti avevo fatta femmina. Continuo a ripetermelo, non so perché.

Posso vedere quello che succede dentro, anche dietro una porta chiusa. Conosco tutti i passaggi nel dettaglio, li ho studiati, imparati a memoria, come se conoscere le fasi del martirio potesse rendermelo più lieve.

La strada del bisturi è già segnata, due cerchi verdi intorno ai tuoi seni per indicare la via al macellaio. Radovic taglia. Una cascata di sangue scende sui lati del tuo corpo fino al tavolo e giù, di sotto, fino al pavimento. Urla che aspirino e che asciughino il sangue da terra. Qualcuno butta uno straccio sulla pozza rossa. Il seno è grande, la carne sgorga, Radovic spolpa e scava.

Sventra il pesce con cura. Altro sangue, immagino Radovic che impreca in serbo che quel seno è enorme e non finisce mai. Rispinge dentro la carne con le dita, cerca di sistemarla mentre l’assistente tenta di tenere a bada il fiume rosso. Coagula.

Ora puzzi di carne bruciata. Non è nervoso né preoccupato però sa che deve fare presto, che stai perdendo molto sangue. Lo vedo chiedere ago e filo osservando le pezze rosse che riempiono il cestino dei rifiuti accanto a lui. Vedo il suo assistente, un uomo alto, più giovane, leggermente curvo, passargli il filo per cucire mentre Radovic continua a scavare. Vedo noi tre passeggiare su una spiaggia al tramonto, l’ora preferita quando la luce è più calda. Vedo te, hai poco più di un anno, cammini vicino a me instabile e malferma per la sabbia e per i tuoi pochi mesi di esperienza. Vedo tuo padre, più avanti, voltato verso di noi che ci mira nell’obiettivo della macchina fotografica. Gli soffiamo baci con le mani e ridiamo. Vedo che ti avvicini troppo a uno scoglio e, senza che abbia il tempo di intervenire, vedo che inciampi e cadi e sbatti il viso sulla pietra. Vedo tuo padre che corre verso di te e ti solleva e vedo folte strisce di sangue sul tuo viso. Vedo il terrore nei suoi occhi, vedo lui che si toglie la maglietta e ti asciuga il sangue dal viso per capire. Vedo che trema e non dice niente e corre con te in braccio verso la strada, verso l’automobile. Vedo me che corro dietro di voi. Vedo il sangue che continua a zampillare sulla sua maglietta. Vedo l’ospedale, la sua maglietta sul tuo viso, vedo lui a petto nudo. Vedo che sei sdraiata sul lettino del pronto soccorso, che ti tengono ferma mentre ti cuciono, bastano pochi punti sotto il sopracciglio, vedo che ti sono accanto e ti accarezzo i capelli, vedo che ti soffio sul viso per alleviarti dal dolore e dal caldo.

Vedo tuo padre con addosso la maglietta sporca di sangue, accovacciato accanto che ti raccoglie il respiro vicino alla bocca e ti bisbiglia parole d’amore.

Vedo tutto come se fossi seduta davanti a un schermo e stessi guardando un vecchio filmino dai colori pastello, muto e ovattato.

Le immagini scorrono e io sento solo il rumore della pellicola, un cupo suono di fondo, basso e costante.

Radovic ha chiuso, ha messo gli ultimi punti sul tuo torace massacrato. Finalmente, il sangue si è fermato. Resta un grumo di pelle violacea punteggiata di sutura. Una lunga striscia in rilievo che ti attraversa il petto da un capo all’altro disegnando due onde di sangue scuro e rappreso.

Accanto al letto, il secchio con le garze insanguinate si è riempito fino a tracimare.

Abbiamo ucciso il nemico.

I suoi resti sono nel secchio della pattumiera.

Non c’è più nulla in te che ti faccia femmina, nulla che ti ricordi vagamente donna. Non più capelli, non più utero, niente più seno. Una bambola di pezza. Mia madre me ne regalò una, un giorno. Era un lungo tronco imbottito alla fine del quale c’erano attaccati dei capelli di lana marrone e disegnate una bocca, un naso e due occhi. La lana venne via quasi subito.

Rimase quello che sei tu ora. Un tronco senza incavature né sporgenze.

Ora non resta che cominciare il travestimento.

È ora che il baraccone si prepari alla sfilata.

Come prima cosa, bisogna riappiccicarti i capezzoli. Che da oggi sono capezzoli di uomo su un torace da uomo.

Radovic chiede se qualcuno ha un centimetro. Alza la voce: «Qualcuno mi passi un dannato centimetro». Gli infermieri e gli assistenti sono muti. Sanno che è una dimenticanza grave. Nessuno risponde. Radovic scoppia a ridere, scuote la testa e si apre una spanna di mano davanti agli occhi. La guarda e comincia a prendere una misura sul tuo corpo. Quando pensa di essere più o meno nel posto giusto si fa passare due cerchietti di metallo, come quelli che io e te usavamo per fare i biscotti al cioccolato, cerchio, cuore o stella. Te li sistema al posto dei capezzoli e li schiaccia nella carne per dargli una forma. Per tagliare l’impasto. Quando vede il segno rotondo, lo incide con il bisturi e si fa passare le due aureole. Prima la sinistra, chiede. Poi la destra. Le appoggia come decorazioni su una borsa di lana cotta. Come due fiori. Due fiori di carne morta.

«Non vengono semplicemente cuciti» mi aveva spiegato Radovic celebrando le sue tecniche, «i capezzoli vengono innestati». Che significa che col tempo si ricreeranno le connessioni vascolari e torneranno ad avere tutte le loro funzioni e terminazioni.

È tutto a posto, Eva, sono qui. Non me ne vado. Controllo tutto da questa sedia nel corridoio. Sono qui affacciata sul tuo martirio, sul luogo che ti porterà a una vita nuova.

Sono qui e sorveglio come un guardiano tedioso.

Pressione minima 86.

Pressione massima 130.

Saturazione ossigeno 100.

Frequenza cardiaca 87.

Non mi muovo da qui. Sono pronta a soffiare di nuovo sulle tue ferite.

Più passano le ore, più il resto del mondo sembra sbiadito come un ricordo. Ci siamo solo io e te. Siamo su un iceberg che si è staccato dal continente e sta andando alla deriva al centro dell’oceano. Siamo io e te, sedute una accanto all’altra senza guardarci, spalla contro spalla a cercare con la vista qualcosa in fondo verso l’infinito, ad aspettare che una delle due gridi: «Terra».

Ma un’altra terra, un luogo nuovo, dove tu possa finalmente essere ciò che desideri e io possa finalmente riposare.