Recensione di Dylan Suher sul libro di Qian Zhongshu

Humans, Beasts and Ghosts, tradotto dal cinese da Christopher Rea (Columbia University Press, 2010)

Raramente ci viene concesso il privilegio di vedere le nostre preoccupazioni tramutarsi in problemi concreti. Di recente, ho avuto modo di concedermi questo lusso bizzarro: mia madre mi ha informato che ho troppi libri e che nessuno sa più cosa farci. Ormai ho più volumi di quanti possano entrare negli scaffali della biblioteca che avevo da bambino o persino in quelli costruiti, alla meglio, come piano d'emergenza negli anni delle scuole superiori, lasciandomi come soluzione temporanea quella di accatastare i libri sul pavimento attorno al letto. La cosa incredibile è che mia madre non sopporta l'idea di vedere pile di libri. Preferirebbe che selezionassi quelli meno importanti (tipo Ice by Ice, l'autobiografia di Vanilla Ice) e che li accantonassi da una parte. Eppure insisto affinché viga un assoluto regime di democrazia all'interno della mia biblioteca. Un capolavoro firmato dal Premio Nobel per la letteratura si dovrebbe distinguere da libri quali "4 ore alla settimana per il tuo corpo" per il contenuto e non per la sua collocazione. Inoltre, credo che attraverso un contatto prolungato, questi abbinamenti apparentemente errati potrebbero portare a degli ibridi stupefacenti, come un "4 ore di urlo e furore" oppure una guida sul benessere fisico dalla prospettiva di Quentin. Ad ogni modo, da accaparratore compulsivo quale sono, non si può mai sapere quando potrei avere la necessità di riconsultare un libro.

L'unica nota positiva in questa crisi opprimente è sapere che i miei problemi diventano irrisori se paragonati a quelli di Qian Zhongshu, un brillante saggista cinese del ventesimo secolo e autore di narrativa. A volte si sente dire che Leibnitz è stato l'ultimo uomo onnisciente. Forse questo è vero per l' Occidente, ma non in Oriente, dove questa persona fu senza ombra di dubbio Qian Zhongshu. Nato nel 1910 in una famiglia conservatrice, gli venne impartita una classica educazione confuciana. Fu il primo dei figli a esser mandato in una scuola moderna, invece che in un'accademia privata. A casa venne istruito sui quattro grandi romanzi della letteratura classica cinese, mentre a scuola sviluppò un profondo interesse per la narrativa, sia in cinese che in varie altre lingue straniere. Al secondo anno di università gli venne chiesto di insegnare in alcune classi alla Qinghua University. Più tardi, studiò persino a Oxford. Parlava correntemente almeno sei lingue straniere (tra cui il latino) e scriveva in perfetto cinese, sia moderno che classico.

Purtroppo, però, nonostante il talento Qian nacque nel periodo sbagliato. Divenne maggiorenne durante la seconda guerra mondiale, e in fretta e furia si trasferì nelle province interne, dove scrisse le sue migliori pagine in condizioni veramente precarie. In questo periodo scrisse una serie di saggi dal titolo "Cold Room Jottings".

Qian stesso ebbe un bel problema con la sua collezione di libri, anche se sicuramente più capiente della mia. Mi piace fantasticare e immaginarmi Qian Zhongshu che si trascina dietro valigioni pieni di libri su treni, navi, e sui carretti spinti a mano. Eppure, so bene che le cose andarono diversamente. La guerra, infatti, gli aveva distrutto tutti i libri e la maggior parte delle citazioni dei lavori che risalgono a quel periodo erano conservate nella sua impressionante memoria.

Questo fatto è ancora più sorprendente se si leggono i saggi scritti da Qian in tempo di guerra, pubblicati recentemente in traduzione inglese assieme ai suoi racconti brevi dalla Columbia University Press in un volume dal titolo Humans, Beasts and Ghosts. I suoi saggi sono incredibilmente eruditi, con complessi giochi di parole, citazioni da lingue e generi diversi, e allusioni elaborate al fine di nascondere l'origine delle opere dalla tradizione cinese. Riesce a raggruppare allusioni da Su Dongpo, poeta della dinastia Song, a Wang Zhuo, persona di spirito appartenente alla dinastia Qing, al filosofo romantico tedesco Novalis, al poeta simbolista belga George Rodenbach, nonché al poeta e politico tedesco del diciottesimo secolo Barthold Heinrich Brockes, in un unico breve paragrafo. Sembrano saggi scritti per una stramba riunione parlamentare: da un seggio si alza Li He e tiene un discorso sulla poesia eccentrica cinese, poi si alza Proust per controbattere e i due portano avanti un vero e proprio dibattito.

Forse, proprio per questo, i saggi di Qian si discostano dal modello espositivo dei lavori di saggistica prevalentemente accolto in Occidente. Considerate questo breve passaggio, tratto dal saggio "Sulle Finestre".

Le porte, che ci permettono di inseguire le cose, indicano il desiderio, mentre le finestre, che ci permettono di dimorare, rappresentano il piacere... Quando si entra dalla porta principale, dobbiamo essere dapprima annunciati dal portiere, attendere l'arrivo del padrone di casa, e scambiarci dei convenevoli di rito prima di giungere al dunque. Una gran perdita di tempo e sforzi mentali se paragonata alla meravigliosa opportunità che ci verrebbe fornita se entrassimo dalla finestra sul retro! É come quando usiamo l'indice in fondo a un libro: una scorciatoia all'apprendimento che rende la lettura integrale del testo principale un po' tortuosa. Questa distinzione è pertinente solo in normali condizioni sociali. In periodi straordinari, invece, come durante la guerra, è inutile parlare di porte e finestre quando le tegole stesse si reggono a malapena.
Questa serie di presunti attacchi e schivate, in cui ogni frase sembra essere una stoccata mordace fine a se stessa e l'argomentazione (se effettivamente ne troviamo una) si sviluppa lentamente verso l'assurdo, è tipica dello stile dell'autore. I suoi saggi non arrivano necessariamente a una conclusione, piuttosto divagano prima di dissolversi. Il saggio "Un Pregiudizio", ad esempio, comincia con l'argomento annunciato nel titolo, poi in qualche modo passa all'affermazione di Platone secondo cui l'uomo è l'unico animale ad essere bipede e implume, per poi offrire una controdefinizione dell'uomo come la creatura che non smette mai di far rumore; poi (sulla base della poesia) argomenta che il vero silenzio di fatto incorpora un qualche tipo di suono naturale, e che l'assenza assoluta di suoni non è il silenzio ma la morte. Continua col descrivere la rabbia che si prova nei confronti del vicino al piano di sopra che fa baccano e poi conviene con Schopenhauer nell'idea che un vero filosofo dovrebbe essere sordo, in modo tale da eliminare i rumori che creano il "pre-giudizio". La parola chiave è irreverenza. In un altro saggio, Qian si mette a tavola con il Diavolo per discutere il problema della celebrità e il declino dell'anima in un'epoca atea.

Il traduttore e l'editore di questa raccolta, Christopher G. Rea, è riuscito a fare un buon lavoro con un testo così difficile da tradurre. Nella versione tradotta, è riuscito a mantenere lo spirito e l'arguzia di Qian, che nell'originale cinese brilla come nei lavori di Dorothy Parker. Ad ogni modo, il professor Rea è un accademico e alcune sue scelte traduttive non sono proprio poetiche ("il volto di ognuno può sorridere e la gola emettere una risata", "ma per quale motivo?", "in possesso dell'indifferenza e della non-chalance tipica delle persone in cerca di svago nel tempo libero!")

Un'ulteriore nota dolente è che i saggi sono costellati di note a pie' di pagina. Come ci spiega Rea, in una frase degna di Qian "le note esplicative, spesso tormento dei traduttori letterari, sono assolutamente essenziali per queste opere, che risulterebbero altrimenti solo parzialmente comprensibili a qualunque lettore con una conoscenza inferiore, rispetto all'autore, dei canoni letterari cinesi e occidentali, in altre parole a tutti noi". Percepisco una certa preoccupazione riguardante la possibilità che nessun senso sarà tratto da questi saggi. A volte, il traduttore viene fuori come un sarto frettoloso, con le spille in bocca, mentre lotta per fare l' orlo ad un capo ribelle. Mi chiedo se questa preoccupazione non rifletta un timore più ampio, un'ansia sul tipo di formazione eclettica rappresentata da Qian. Giornali, riviste e blog sembrano tutti in fermento con la "crisi delle scienze umane." In una recensione sulla letteratura pubblicata per il "The New York Review of Books", Anthony Grafton conta non meno di otto libri di recente pubblicazione sul tema dei profondi problemi all'interno dell'università americana. In breve, l'idea è che la società contemporanea americana non possa fare alcun utilizzo, o almeno pensi di non poter usare, le scienze umane, rifiutandosi così di sostenere ulteriormente questa raccolta di "brani inutili".

Con le discipline umanistiche apparentemente in pericolo, non vi è alcuna carenza di campioni che cercano di difenderne la causa fino alla morte, vendendo nel frattempo un po' di libri. Alcune argomentazioni sfociano sul ridicolo. Il Professor Robert N. Watson della UCLA sostiene che le discipline umanistiche siano in realtà redditizie per l'università, in quanto generano maggiori entrate di quello che costa mantenerle. Se fosse veramente così, dubito che i rettori delle università sarebbero così nobili d'animo nella loro ricerca dell'utile al punto da rifiutarsi di investire. D'altra parte, anche gli argomenti più raffinati alla fine giungono più o meno alle medesime conclusioni. Quando la filosofa Martha Nussbaum sostiene che "l'istruzione non è solo per la cittadinanza, prepara le persone all'occupazione e, soprattutto, a una vita significativa", in realtà sta semplicemente dicendo che gli investimenti alla lunga pagano: "cittadinanza", "vita significativa" e buoni lavoratori in contrapposizione a freddi contanti. Il problema delle scienze umaniste alla lunga ci ripagherà, dicono i sostenitori della crisi, questo però non potrà accadere in un futuro immediato.

Questa ossessione sulla ricompensa non faceva parte di Qian Zhongshu: per lui era sufficiente "sguazzare" nell'apprendimento, sicuro di sé al punto da giocare con i tomi più polverosi della sua biblioteca senza cercare di trarne dei profitti a tutti i costi. Forse questa sicurezza dipendeva dal suo background. La culture cinese scritta esiste da oltre cinquemila anni. È costuita da strati, scale a incastro, ed è difficile scrivere una frase senza richiamare alla mente un poeta o un racconto del passato. Se non altro, almeno è la prova che tutto prima o poi torna utile, indipendentemente dai profitti che se ne possono trarre.

Gli americani, al contrario, hanno scommesso molto sul valore più o meno tangibile della cultura: la nazione è costruita su nobili ideali. Se la filosofia e lo studio non contano niente, allora anche la libertà e la ricerca della felicità possono non assumere un significato tanto importante? E l'America è un paese giovane, con una narrativa nazionale in evoluzione continua e sempre più influente. I Cinesi conoscono bene la massima del Romanzo dei Tre Regni secondo cui dopo lunghi periodi di divisione l'impero si deve riunire, e dopo esser rimasto coeso per molto tempo si dovrà nuovamente dividere e che le società oscillano tra il caos e la stabilità, alternando periodi di prosperità a periodi di decadenza. Noi Americani, invece, non abbiamo la più pallida idea di cosa siano i cicli storici. In solo duecento anni di storia, non siamo mai stati divisi a lungo, così come non siamo neppure stati particolarmente uniti. Le nostre preoccupazioni, forse, derivano dal fatto di essere una nazione giovane. Senza una vera e propria storia, non siamo ancora del tutto convinti che la società civile, liberale e democratica, di cui tanto si parla, non possa svanire nel nulla da un momento all'altro. Non abbiamo la pazienza di condurci in passeggiate erranti della mente come Qian, almeno non quando si sospetta che la Repubblica potrebbe essere messa in gioco.

Tuttavia, forse è più l'umanesimo eclettico di Qian a somigliare al sapere contemporaneo che i timori dei sostenitori della crisi. Il miracolo moderno di Internet, una vera e propria ondata di informazioni, è ben lontano dal saggio concreto, il saggio che procede linearmente verso una meta facilmente comprensibile. In questi tempi, la conoscenza è costituita da un nido d'ape di datapoint sparsi, gocce di informazione che si accumulano in un aggregatore o in un linkhub fino a costituire un flusso apprezzabile, particelle casuali che si scontrano in esplosioni rilevabili per poi andare ognuna per la propria strada. Guardate la prima pagina di Wikipedia: alla data di scrittura, vedo un articolo su una squadra di Minor League Baseball, i Nashville Sounds, una foto di un calamaro gigante, e una sezione su Liu Yang, la prima donna cinese nello spazio. Libri sparsi da una libreria bizzarra e diversificata inserita in uno spazio conversazionale: si tratta a tutti gli effetti di un saggio di Qian Zhongshu.

Ma voglio essere molto chiaro su questo punto, e non cadere nella trappola di attribuire un altro valore nascosto alle discipline umanistiche o, lungi da me, in quell'ironia vuota e irritante del valore che giace nell'assenza di valori. Il punto dovrebbe piuttosto essere che non c'è alcuna fine e che se vivessimo in un'epoca meno avara, avremmo il coraggio di ammettere che le discipline umanistiche rappresentano semplicemente un modo di vivere (un dao, per così dire), senza fine e senza dividendi. Potremmo essere obbligati a trovare varie giustificazioni per difendere questa posizione, ma con ogni probabilità, la verità non va al di là della seguente affermazione: è un albero di vita per coloro che ci si afferrano ben stretti e beati saranno coloro che lo sosterranno.

L'ideale di Qian per l'analisi della vita si incarna nel suo dialogo con il Diavolo, vecchio mecenate della conoscenza. Due uomini dotti siedono uno di fronte all'altro e intrattengono una piacevole conversazione fino a tarda notte. Scherzano e giocano con le parole, teorizzano giusto per il gusto di farlo, e poi deridono la propria pretenziosità. Non prendono mai il mondo troppo sul serio, proprio perché è già più serio di quanto riescano a sopportare. Questo modo di vivere è una gioia eterna che è raggiungibile ora più che mai. Un aggregatore che scava incessantemente sempre di più, per leggere e per imparare; bacheche su ogni argomento sotto la Volta Celeste, un Listserv loquace e argomentativo; le conversazioni non cessano mai. Un milione di scuole competono, e noi restiamo svegli tutta la notte scherzando, urlando e rimanendo immersi nella lettura e in qualche modo lo facciamo di nuovo anche il giorno successivo.

In altre parole, questo non è tanto un saggio quanto un biglietto a mia madre. I libri non saranno messi nello scantinato. Sarebbe una mossa crudele e avara come un'università che decide di tagliare i fondi al dipartimento di francese o di russo. Mi rincresce informarti che, al contrario delle tue aspettative, il mio progetto è di acquistare più libri. Inoltre, rimarrai forse ancor più delusa nel sapere che non c'è alcun programma alternativo. Non ho assolutamente idea di cosa fare con tutti questi libri, ma ho intenzione di comprarne di più, sempre di più, tanti quanti basteranno per leggere dalla mattina fino a mezzanotte. Ciò che è peggio, è che sono egoista al punto da voler lasciare questi mucchi di libri nella mia stanza quando tirerò le cuoia, per lasciarli agli amici con cui ho intrattenuto argomenti sciocchi e pedanti o ai parenti che ho annoiato a morte in modo tale che li possano riorganizzare e venderli per il pacciame. Ma tutte quelle povere persone che mi hanno sopportato, tutti coloro che avranno il compito di scaricare questo fardello irritante, tutte quelle povere anime sapranno che, fino alla fine, perlomeno ho sempre avuto "le parole", e se Dio vuole, anche loro le avranno sempre al loro fianco.


Riccardo Moratto's translation of the essay, also presented here, is authorized by the author.