La traduzione come pratica dell’accoglienza

Un saggio di Anita Raja

Da trentacinque anni svolgo un’attività secondaria, laterale, e tuttavia costante, come traduttrice letteraria dal tedesco. Ho tradotto e traduco essenzialmente per piacere. Poiché tradurre non è mai stato il lavoro che mi dava da vivere, ho potuto sempre scegliere testi che mi interessavano, che avevano buone, se non elevate, qualità letterarie e che comportavano un forte coinvolgimento.

Per queste mie considerazioni mi riferirò al mio lavoro di traduzione di due autrici contemporanee, del Novecento: Christa Wolf e Ingeborg Bachmann, e di un autore vissuto nella prima metà dell’Ottocento, tra il 1813 e il 1837, Georg Büchner.

Che cosa è per me tradurre letteratura? E’ stabilire una relazione, più o meno intensa, che si svolge tutta all'interno della parola scritta, una relazione che partendo da un testo scritto produce un altro testo scritto: non solo quindi un rapporto tra due lingue ma soprattutto un rapporto tra due scritture, tra due atti di parola scritta che per loro natura sono fortemente individualizzati.

Questa relazione non è paritaria, anzi è caratterizzata dalla disparità. Essa richiede un'attitudine particolare: bisogna tirarsi indietro per accogliere la lingua dell'altra o dell'altro, per lasciarsene invadere, per ospitarla.

Intendo naturalmente del tradurre il testo di una grande scrittrice o di un grande scrittore, di una persona cioè con una capacitá di linguaggio molto elevata. In tal caso chi traduce subisce l’autorità, la fascinazione del testo di partenza, e offre il proprio linguaggio con amore, con passione, con ammirazione, con devozione. Se si verifica una condizione del genere, tradurre significa disporsi ad accogliere un testo fortemente strutturato, piegarsi parola dietro parola, frase dietro frase, alle sue necessità, forzare la propria, più modesta capacitá di linguaggio obbligandola a crescere per essere all’altezza dell’originale.

Il testo dell'altra o dell'altro urta contro la lingua di chi traduce, vi fa attrito, provoca un altro testo a propria immagine e somiglianza. Sicchè tradurre non è trascrivere, ma ri-scrivere in un'altra lingua, naturalmente in modo non libero e tuttavia inventivo. L’inventiva del traduttore è integralmente votata a ospitare l’originale nel modo migliore.

In questo quadro va collocato il mio rapporto con Christa Wolf, anche se il legame che ho stabilito con lei—con la sua opera e con la sua persona—è stato un'esperienza unica, irripetibile per molteplici ragioni, e quindi difficilmente riducibile a uno schema. A Christa Wolf (1929-2011) sono arrivata nei primi anni Ottanta, dopo aver tradotto diverse autrici della ex DDR, lavoro che all’epoca mi ha appassionata molto, perchè della letteratura di quella parte della Germania in Italia si sapeva poco o niente e mi pareva stimolante fare da canale di collegamento. La lettura dei testi di Christa Wolf mi ha portato però ben oltre la curiosità culturale per le donne che scrivevano in un paese distante, in condizioni politiche difficili.

Ricordo l’impatto con Cassandra, il suo primo libro che ho tradotto. Ho provato da subito una forte ammirazione per la potenza della sua scrittura, malgrado lo stile elevato abbastanza distante dalla mia sensibilità. La vita nella Germania dell’Est, l'ambiente intellettuale dentro cui si muoveva Wolf, la sua condizione di autrice sempre in precario equilibrio tra dissenso e conformità, precipitavano in una narrazione mitica modernissima e avvincente, ed erano filtrati da un modo nuovo di dire l'esperienza femminile.

A partire dal 1984, con la pubblicazione di Cassandra in Italia, la conoscenza dell'autrice attraverso il testo da tradurre si è trasformata in amicizia. Il rapporto tra due lingue, cioè il rapporto tra il testo originale e il testo tradotto, è diventato anche rapporto tra due persone. Dalla parola scritta si è passate a quella orale, al corpo, alla voce, allo spazio domestico, allo spazio pubblico, insomma alla conoscenza diretta dei molti piani dell'esperienza che lei volgeva in letteratura. Ho avuto la possibilità e la fortuna di entrare nel laboratorio dell'autrice, di conoscere il suo ambiente, i suoi affetti, i luoghi del suo quotidiano, la sua normalità, il suo modo di negare lo stereotipo della genialità, di normalizzare il talento, di "quotidianizzare" la grande storia.

Ciò ha sicuramente arricchito la mia esperienza, ma non so dire se ha pesato nel rapporto tra me traduttrice e il testo da tradurre. Ho accennato sopra alla disparità che caratterizza la traduzione. Certo, il rapporto con l’autrice è stato per me molto fecondo, ha messo in gioco sentimenti importanti: affetto, ammirazione, riconoscenza, nella doppia accezione della gratitudine e di un di più di conoscenza. Ma la disparità è rimasta, implicita nel testo e in qualche modo resa ancor più visibile dal rapporto personale.

Un testo ci tiene stretti nella sua rete già come lettrici/lettori, anche se—quando leggiamo un libro che amiamo—è difficile capire dove finiamo noi, dove il personaggio, dove ci pieghiamo alle intenzioni di chi ha prodotto il testo, dove inseriamo le nostre intenzioni. Tradurre significa accettare quella disparità, vedere con chiarezza la rete del testo, farsene lucidamente intrappolare. Un testo che suscita la nostra ammirazione, che ci domina, dà la sensazione che chi l’ha scritto sia riuscito a dire cose per le quali non avevamo le parole. Mentre leggiamo, avvertiamo che quel testo ci esprime, che se avessimo saputo scrivere ci sarebbe piaciuto scriverlo proprio così come è scritto, che chi l'ha scritto è come se l'avesse scritto pensando proprio a noi.

L’atto del tradurre deve accogliere e potenziare queste impressioni. Accettare che quella parola è più potente della propria parola significa cercare la via per colmare la divaricazione, per arrivare nei limiti del possibile a far combaciare testo originale e testo d’arrivo. Nei limiti del possibile, appunto.

Accettare la disparità non è un atto di resa, anzi, decidersi a tradurre è una negazione della resa. Chi traduce conosce i propri limiti e tuttavia per devozione, per amore, è disposto a forzarli, o almeno sceglie di provare a farlo.

Christa Wolf mi ha fatto scoprire quanto può essere fertile, nel tradurre, riconoscere la disparità. Dal riconoscimento e dall'accettazione di questa disparità muove la domanda che dovrebbe assillare chiunque traduca: "quanto sarò capace di trasportare, nella mia lingua, della sua parola?" Non è solo questione di contenuti. Christa Wolf è una scrittrice che agisce sulle strutture lessicali, grammaticali e sintattiche della lingua tedesca, sull'attività metaforizzante, sul modo di stabilire nessi logici. Un elemento peculiare della sua scrittura è il gioco dei pronomi: la persona ora è compatta, ora appare scissa in un "io," un "tu," un "lei," a seconda delle fasi della vita. L’"io" autore dell’atto di scrittura non si nasconde, ma affiora sempre esplicitamente sulla pagina, segnala i punti di immedesimazione con la vicenda, coi personaggi.

La scrittura tende a forzare la disposizione lineare della sequenza narrativa e a riprodurre la compresenza e la simultaneità di eventi interiorizzati che si sottraggono alla convenzione cronologica lineare. Il filo del racconto si snoda molto liberamente tra presente e passato, tra piani temporali diversi, mescolando alto e basso, citazioni letterarie colte, canzonette ed espressioni colloquiali e gergali. Le parole più comuni sono come sfogliate strato dietro strato, slittando da un periodo all'altro attraverso i sensi accumulati lungo la loro storia. Il discorso diretto e il discorso indiretto spesso derivano l'uno dall'altro senza soluzione di continuità.

Tradurre significa quindi non solo esercitare una vigilanza estrema sui movimenti del testo originale, ma soprattutto interrogarsi sulle possibilità della propria lingua, la lingua che accosta quel testo. Pensiamo al sessismo. Quando ho cominciato a tradurre ne avevo una consapevolezza pratica e una vaga, distratta percezione linguistica. In Christa Wolf invece la percezione linguistica era elevatissima, cosa che mi induceva di rimando a percepire il sessismo della mia lingua. Tradurre le sue opere, far posto alla consapevolezza critica della sua individualità linguistica, mi ha costretta a individuare il sessismo (ben più marcato) della lingua italiana, a rifare il suo percorso nel mio universo linguistico cercando di tenerle dietro. Potrei fare a questo proposito innumerevoli esempi; l’attenzione alle "metafore morte" incamerate nel linguaggio; la falsa neutralità della forma impersonale (man), l’attenzione alle desinenze pronominali e la difficoltà di renderle in italiano, l’ossessione per ogni participio passato—che in tedesco non si concorda e in italiano sì; l’attenzione a un maschile che si traveste da neutro universalizzante; o, che so, un sostantivo come das Elternhaus, casa dei genitori, casa di famiglia, che in italiano corrisponde all’espressione "casa paterna," la quale introdurrebbe una connotazione fastidiosa in un testo attentissimo alla critica del linguaggio. Insomma, proprio traducendo Christa Wolf ho scoperto che il lavoro di traduzione può diventare una sfida ai limiti del linguaggio, un lavoro quindi particolarmente stimolante proprio perchè ha agito sul mio povero, più comune lavoro di verbalizzazione, portandolo per vie che da sola non mi sarebbe mai venuto in mente di tentare.

A questo proposito faccio un ultimo esempio: il titolo di un romanzo del 1976, Kindheitsmuster, che mi ha dato molto da fare. Si tratta di una parola composta, die Kindheit è l’infanzia, das Muster ha tanti significati:

—il motivo, il disegno che caratterizza un tessuto;
—il "modello," non nel senso di modello esemplare, exemplum memorabile, ma di standard, campione rappresentativo in senso sociologico;
—il paradigma, in grammatica il modello di declinazione, la formula di carattere generale, l'insieme delle forme fondamentali da cui derivano tutti i tempi.

Che fare? In tedesco i vari strati di significato agiscono tutti insieme, contemporaneamente. E in italiano? Ho cercato di rendere la somma di tutti questi significati traducendo infine con "Trama d’infanzia." "Trama" in italiano suggerisce l’ intreccio degli eventi di un’infanzia, ma rimanda alla fatica e all’arte di tessere, alla trama e all’ordito di un tessuto, al modello, al disegno che presiede al tessere. Quello che il libro ci racconta, e che ho cercato di suggerire nella mia traduzione del titolo, è che la trama dell’infanzia è fatta di moltissimi fili difficili da riannodare. Il mio lavoro è consistito nel trovare una formula italiana che permettesse di lasciare aperto il significato, di mantenerne la plurivocità o meglio, come dice Wolf nelle Premesse a Cassandra a proposito della poesia di Ingeborg Bachmann, di rendere "l'indeterminazione più precisa, la molteplicità di senso piú limpida." Per me questa definizione racchiude il senso non solo dell'operazione che Wolf compie sulla lingua, ma anche di qualsiasi traduzione letteraria.

Questa formula mi permette di passare alla seconda autrice di lingua tedesca (ma di nazionalità austriaca), alla quale tra l’altro mi sono avvicinata proprio tramite Christa Wolf: Ingeborg Bachmann (1926-1973). Nelle sue Premesse a Cassandra Wolf aveva inserito e commentato una poesia di Bachmann, "Erklär mir, Liebe," "Spiegami amore," e sebbene esistesse già una traduzione in italiano, ho dovuto ritradurre il testo perché Wolf, col suo commento, percepiva nell’originale significati che il lettore italiano non avrebbe potuto ricavare dalla traduzione esistente. Mi sono ritrovata all’epoca di fronte a una situazione che poi ho incontrato di frequente e che provo a riassumere così: mentre l’originale stimola a letture sempre nuove, fondate o meno che siano, la stessa virtù non trasmigra integralmente in nessuna traduzione, per quanto chi traduce si impegni ad essere massimamente fedele al testo. Ma su questo spero di tornare in seguito. Ora voglio dire che tradurre una poesia di Ingeborg Bachmann attraverso la mediazione obbligata di Christa Wolf mi ha avvicinata a testi ancora più complessi—di quelli che in genere vengono definiti "intraducibili" o comunque di quelli a cui chi traduce si avvicina a suo rischio e pericolo—e dove quindi la disparità diventa incolmabile.

In Bachmann la traduttrice o il traduttore si trovano non solo di fronte a una parola potente, ma a una parola che è così potente da avvertire di continuo la propria debolezza. Elenco qui sommariamente alcuni temi che caratterizzano la sua scrittura: 1) La perdita della distanza tra il sè e l’altro: dire "io" nella gabbia pronominale di cui disponiamo è limitante, risulta sempre meno possibile tracciare un confine netto tra io e non-io, l’io tende a rompere gli argini, è plurale e plurivoco. 2) La consapevolezza che il linguaggio di cui disponiamo non dice pienamente: la parola è inadeguata a esprimere la complessità del mondo e dell’io, a restituire l’esperienza col suo groviglio di passato e futuro, non riesce a dire in modo esauriente, per esempio, l’amore femminile (il romanzo Malina è un catalogo delle parole dell’io che ama, delle parole che non riescono a colmare il vuoto dell’assenza dell’amato). 3) Affiora di conseguenza il vagheggiamento di una parola salvatrice, di redenzione: abbiamo necessità—dice Ingeborg Bachmann—di una parola che schiuda nuovi mondi e nuovi spazi, che contenga in sè l’esperienza dell’impossibile, dell’amore che non finisce, della felicità, della non-esclusione dell’altro. Abbiamo necessità di una lingua che possa far "attraversare confini," come si dice nella poesia "Von einem Land, einem Fluß und den Seen," "Di una terra, un fiume e dei laghi": "Ma noi vogliamo parlare di confini/e siano i confini pur in ogni parola,/per nostalgia li attraverseremo/e saremo in armonia con ogni luogo." 4) Lo sbocco è la tensione utopica, che apre alla scrittura come costruzione di un luogo che non c’è ancora.

Questa tensione utopica è al centro di una poesia mai tradotta, irta di difficoltà, a cui mi sono dedicata parecchi anni fa. Essa dichiara un’impossibilità già nel titolo: "Böhmen liegt am Meer," "La Boemia sta sul mare." E’ stata scritta tra il 1964 e il 1966, è stata pubblicata nel ’68, e si può immaginare il forte impatto politico che ebbe, subito dopo la primavera di Praga e l’invasione sovietica di agosto, visto che quel titolo suona come un rifiuto netto: è noto che la Boemia non sta affatto sul mare. Leggiamo:


Se da queste parti le case sono verdi, entrerò ancora in una casa.
Se qui i ponti sono intatti, camminerò su un fondo sicuro.
Se la fatica d’amore in ogni tempo va sprecata, qui la sprecherò volentieri.

Se non sono io, è uno che potrebbe essere me.

Se qui una parola mi accosta, la lascerò accostare.
Se la Boemia sta ancora sul mare, crederò di nuovo ai mari.
E se al mare credo ancora, spererò nella terra.

Se sono io, allora è chiunque sia simile a me.
Non voglio più niente. Voglio andare a fondo.

A fondo—nel mare cioè, lì ritroverò la Boemia.
Affondata, mi sveglierò tranquilla.
Adesso so fino in fondo, e non sono smarrita.

Venite, tutti voi boemi, marinai, puttane d’angiporto e navi
Senza àncora. Non volete essere boemi, voi illiri, veronesi,
e veneziani tutti? Recitate le commedie che fanno ridere

e sono da piangere. E sbagliatevi cento volte,
come io mi sbagliai e non superai mai prove,
eppure le ho superate, una volta dopo l’altra.

Come le superò la Boemia e un bel giorno
Ebbe la grazia del mare e ora sta sull’acqua.

Mi accosto ancora a una parola e a un’altra terra,
mi accosto, anche se poco, sempre più a tutto,

boemo, chierico vagante, che niente ha, che niente trattiene,
dotato soltanto dal mare, che è dubbio, di occhi per la mia terra di elezione.


Come ho detto, la poesia dichiara un’impossibilità fin nel titolo: la Boemia non sta sul mare. La molteplicità dei significati, sprigionati da quelle che Bachmann chiama le "luminosissime parole oscure," mette a dura prova il lavoro di traduzione. La Boemia qui è ein anderes Land, un’altra terra, dalla geografia incerta, visionaria, un luogo letterario e una terra promessa (tutta la poesia, del resto, rimanda a Shakespeare: dalla Boemia fantastica del "Racconto d’inverno" alle figure e agli ambienti marittimi shakespeariani). Bachmann usa le parole sfogliandone i significati stratificati, sventagliandoli sotto gli occhi del lettore. (In un’intervista del 1971, riferendosi alle "frasi prefabbricate," diceva: "Già una singola parola è intessuta di molti enigmi—più si guarda da vicino, più lontano rimanda; allora uno scrittore non può servirsi del linguaggio che è stato già trovato, cioè delle frasi, ma scrivendo, deve distruggerle"). Chi si prova a tradurre è indotto di conseguenza allo stesso lavorio di decostruzione, scoprendo a ogni parola quanto nel passaggio da una lingua all’altra poco si acquista e molto si perde. Soffermiamoci a mo’ d’esempio sul primo verso: Sind hierorts Häuser grün (Se da queste parti le case sono verdi) evoca l’espressione "Jemandem grün sein," essere accogliente, ben disposto verso qualcuno. Il verde delle case sprigiona, in tedesco, la formula della disposizione ospitale. Lì dove le case non sono verdi, per l’io della poesia non è possibile trovare asilo. Solo i paesi dalle case verdi hanno dimore per i poeti. Ma in italiano? In italiano bisogna accontentarsi del verde associato alla speranza e all’infanzia. L’accoglienza, la buona disposizione verso l’estraneo, si perdono. Ma ogni verso di questo testo è un’onda di suggestioni difficile da riorganizzare nel testo d’arrivo. Dirò soltanto che tutto l’impianto formale della poesia oscilla tra i due poli del naufragio e dell’ approdo, della caduta e della risalita, dell’immersione e dell’emersione. Si veda il nesso morte-vita, l’andare a fondo e il non-perdersi. Il lavoro su Grund (terreno, suolo, fondo, fondamento, base, causa) è particolarmente significativo. Ich will zugrunde gehen (voglio andare a fondo), Zugrund—das heiβt zum Meer (a fondo—nel mare cioè), Zugrund gerichtet (affondata, mandata a fondo), Von Grund auf weiβ ich jetzt (adesso so fino in fondo, dal profondo). In un’alternanza di disperazione e di speranza, di sradicamento e di ricerca di nuove radici, il testo approda a una sorta di ricostituzione dopo lo smembramento, a un recupero della parola poetica, ma dentro nuovi orizzonti ("accosto ancora a una parola e a un’altra terra"). In questo senso la Boemia diventa il mondo fiabesco in cui i ponti sono ancora intatti e le case sono verdi, ospitali, il paradigma dell’utopia, la patria di tutti i senza-patria, i "disancorati," coloro che sono "senza àncora."

Ma quanto di tutta questa ricchezza arriva in italiano? E se risulta impossibile che arrivi, cosa bisogna fare, rinunciare a tradurre?

Come ho detto all’inizio, io mi sono cimentata solo con testi di letteratura e, in principio, nemmeno con la consapevolezza delle difficoltà legate alla traduzione di un’opera letteraria. Queste difficoltà le ho scoperte traducendo. Chi traduce (oltre a conoscere bene ovviamente la propria lingua e la lingua dell’originale) dovrebbe essere innanzitutto una buona lettrice o buon lettore, capace di calarsi nella complessità del testo, di smontarne il meccanismo, di percepirne ogni sfumatura: una lettrice o un lettore insomma che ha l’obbligo di interrogarsi, rigo dietro rigo, sulla ricchezza dell’originale e ricostituirla integra nel testo d’arrivo. Impresa sostanzialmente impossibile.

Si può davvero tradurre tutto? Un testo può passare integralmente in un’altra lingua? Chi traduce un testo letterario complesso si scontra continuamente con questo problema, e non necessariamente in rapporto alla grandi questioni connesse all’uso letterario della parola. L’impossibilità si manifesta spesso su questioni minori, per esempio quando ci si trova di fronte a giochi di parole, citazioni nascoste, eccetera. Un modo frequente di affrontare il problema è la 'nota del traduttore' che dichiara per esempio: "gioco di parole intraducibile." Ho fatto ricorso anche io a note del genere. Ma oggi credo che "intraducibile" sia solo ciò che, innanzitutto come lettrici o lettori specializzate/specializzati, non riusciamo a cogliere. Invece ogni volta che chi traduce percepisce una difficoltà ha l’obbligo di trovare il modo di affrontarla, scioglierla, risolverla. Direi così: tutto ciò che arriva alla comprensione di chi traduce, deve trovare il modo di essere tradotto. E la risorsa maggiore di chi traduce deve essere la sua inventiva.

L’inventiva per la traduttrice o il traduttore è rischiosa, spesso si tende a privarsene in nome della fedeltà al testo. Ma affrontare un problema di traduzione con inventiva non significa affatto rinunciare alla devozione verso l’originale. L’inventiva deve agire all’interno di quella devozione proprio per evitare che la sacralità malintesa del testo generi traduzioni incomprensibili o la stessa intraducibilità. Non vorrei essere fraintesa, non sto parlando di leggibilità, di "brutte fedeli" e "belle infedeli" secondo uno stereotipo della cultura maschile di grande fortuna. La lettera dell’originale va benissimo, anche se risolve un problema di traduzione in una lingua poco accattivante. Come va benissimo combattere la tendenza delle case editrici a mettere tutto in un ‘buon italiano’, in una lingua standard che censura l’impatto deragliante tra l’originale e la lingua d’arrivo. L’inventiva a cui sto accennando, l’immaginazione della traduttrice o del traduttore, ha un’altra funzione: essa affronta i problemi di intraducibilità non limitandosi alla singola parola o alla singola frase ma evocando il contesto, immaginando il percorso mentale dell’autrice o dell'autore, cercandolo passo passo nel testo.

A questo proposito vorrei far cenno a una mia recente esperienza di traduzione di un piccolo 'classico,' Morte di Danton, di Georg Büchner (1813-1837), un testo teatrale scritto nel 1834 da un autore all’epoca ventunenne. E’ un testo straordinario sulla rivoluzione francese e sul suo fallimento, scritto da un giovane medico di simpatie rivoluzionarie. Nell’originale non c'è parola, non c'è espressione casuale, intercambiabile, sostituibile con un'altra. Ogni formulazione ha una sua intima necessità, ogni parola ha un rimando nel testo, ogni frase ne sottende un'altra, in un continuo di citazioni, di giochi di parole, in una lingua potente e diretta, brutale e tuttavia fine, piena di allusioni. I due grandi personaggi sono Danton e il suo antagonista Robespierre.

Faccio un esempio a proposito della traduzione letterale o "a senso." Siamo nel primo atto, Danton si rivolge a Robespierre e dice: "Nicht wahr, Unbestechlicher, es ist grausam, dir die Absätze so von den Schuhen zu treten?" Questa frase vuole dire, alla lettera: "Non è vero, Incorruttibile, che è crudele portarti via in questo modo i tacchi dalle scarpe?" (così aveva tradotto Alba Burger Cori nel 1963, mentre Giorgio Dolfini nel 1966 traduce a senso: "Vero, Incorruttibile, che è crudele ferirti così nel tuo tallone d’Achille?") Io sono stata a lungo incerta se tradurre "Che dici, Incorruttibile, non è terribile abbassare a questo modo la tua statura?." Ma sentivo che era una traduzione insufficiente. La lettera mi sembrava rozza, inespressiva, e d’altra parte la sparizione dei tacchi mi sembrava un impoverimento Mi sono chiesta: "Perchè Büchner menziona i tacchi, perché mette questa parola in bocca a Danton? Qual è il senso simbolico di quella parola?" Ho pensato alla struttura corporea di Danton, un gigante, e a quella più esile di Robespierre. Ho provato a tradurre: "Non è terribile che ti si facciano saltare a questo modo i tacchi delle scarpe ridimensionandoti la statura?." Ma quale statura? E soprattutto di quali tacchi si sta servendo Robespierre per sovrastare Danton, e quali tacchi soprattutto gli stanno portando via dalle scarpe? Così alla fine sono arrivata a questa traduzione: "Che dici, Incorruttibile, non è atroce che la tua statura morale si ritrovi di colpo senza i tacchi sotto le scarpe?" Non è la lettera e non è una traduzione a senso. E’ una traduzione che cerca il senso immaginando il contesto e nel farlo rischia.

Faccio un ultimo esempio. Siamo nel secondo atto, due signori a passeggio conversano, uno dei due parla dell’ultima commedia vista a teatro. A un certo punto sta per inciampare, e dice questa frase (che conclude la scena): "man muss mit Vorsicht auftreten, man könnte durchbrechen," cioè, alla lettera: "Bisogna avanzare con cautela, ci si potrebbe rompere l’osso del collo." (Burger Cori: "Bisogna camminare con precauzione, la crosta terrestre potrebbe perforarsi." Dolfini: "Bisogna procedere con prudenza, si potrebbe sprofondare.") Ma anche qui bisogna immaginarsi il contesto, si parla di teatro sullo sfondo della ghigliottina. E soprattutto c’è il denso significato del verbo auftreten (entrare in scena, avanzare sul palcoscenico), che volge in metafora la conversazione precedente sul teatro. Alla fine ho tradotto: "Bisogna sempre avanzare sulla scena del mondo con prudenza, ci si potrebbe rimettere l’osso del collo." 

Le soluzioni a cui approdiamo sono buone, sono cattive? Di certo alle opere di valore letterario ogni veste in un’altra lingua va stretta. E ciò che deborda non solo non lo riconosciamo, ma nemmeno lo vediamo. Chi traduce dovrebbe possedere un grande talento critico e insieme mimetico. Ma anche lo sguardo più acuto ha una sua miopia. Ogni lettura, ogni traduzione ha i segni della parzialità storica. Il testo d’arrivo non è mai definitivo, è sempre perfettibile. Chi traduce mette in campo tutta la propria determinazione storica, di status, di sesso, il proprio bagaglio di conoscenze, sensibilità, ecc. E questo bagaglio si logorerà: la lingua che utilizziamo oggi invecchierà, il testo originale sprigionerà in futuro significati che oggi non vediamo o significati che appanneranno ciò che ci è sembrato di vedere.

Forse dobbiamo concludere che l’universalità del testo originale non si riproduce in una sola traduzione, ma nell’insieme delle traduzioni, quelle precedenti e quelle che seguiranno. Ed è bene e bello che sia così.



This essay is based on a lecture, originally titled, “La traduzione come pratica dell’accoglienza,” delivered at NYU Florence on November 25, 2015.

Questo testo, originariamente intitolato "La traduzione come pratica dell’accoglienza," è stato presentato presso la NYU Firenze, Villa La Pietra, il 25 novembre 2015.